Gli
anni in Europa erano ormai diventati cinque, di cui tre a Milano dove un’allegra associazione a delinquere chiamata Capoeira mi dava parecchio di che gioire. Complici due brasiliani (Luis “baxinho” Oliveira
e Bruno Sciuto) e un italiano (Luca Morselli), questa autentica armata brancaleone musicale
- per chi non l'avesse capito suonavamo insieme -, rimaneva ormai il mio unico legame con la lingua madre.
La necessità di “tornare”, intanto, diventava sempre più pressante. Non dico
fosse saudade o qualcosa di simile, ma avvertivo un’impellente necessità di chiudere una fase:
quella del viaggiatore.
E rieccomi, dunque, in coda alla dogana di Rio, col mio zaino pieno di “tacche” di viaggio. Eccomi di nuovo col passaporto verde in mano, quasi fosforescente d’orgoglio
per l'essere stato finalmente ripreso in mano dopo un lungo oblio. Nello
“zaino” portavo anche la “compagna del momento”, di nome Consolata,
una ragazza milanese che sarebbe poi diventata, a viaggio concluso, anche mia
moglie, la quale aveva lo sguardo raggiante di chi entra in Brasile per la prima volta.
E, qui, la prima sorpresa: i soldi. Ormai abituato a una situazione di “inflazione zero”, qualcosa dentro di me si chiedeva
perché mai non potessi usare gli stessi soldi di quando ero uscito.
Invece niente, e non solo all'ufficio cambi, ma anche nel fare la prima telefonata
mi fu ormai chiaro che non solo nei confronti dei prezzi, ma anche
nell'uso della moneta avrei dovuto avere la stessa attenzione di
quando si entra per la prima volta in un paese “straniero”.
Ricordo che a ogni nuova tappa di questo ultimo viaggio una delle prime cose
cui dovevo prestare attenzione era memorizzare i costi degli oggetti, condizione fondamentale per poter
ricollocarsi nella nuova realtà con la misura dei limiti relativi
alle cose che si possono o meno fare.
L’inflazione
del 120 percento al mese, però, rendeva tale cosa impossibile: gli aumenti quotidiani,
ad esempio, degli autobus, collidevano con quelli bimestrali delle tariffe aeree. Era più economico
andare a Brasilia in aereo che in autobus, tanto per dirne una. Per cui il valore effettivo di ogni cosa non poteva basarsi solo sul suo costo economico. Toccava
conoscere il nuovo parametro di confronto con quello di altri beni.
Ero finalmente tornato in Brasile, la mia terra, e questa mi riceveva da straniero.
Non vedevo l’ora di arrivare a São Paulo, ma anche qui le sorprese abbondavano.
Arrivato a Jardim Sao Paulo, il mio quartiere, scorgo un’enorme
fabbricato proprio accanto alla scuola della mia infanzia: una stazione della
metropolitana. Autobus dappertutto, un traffico surreale su strade
tranquille dove anni prima usavo passare le mattine a giocare a pallone. Dove per anni c’erano i campetti di calcio, ormai sgorgavano palazzi di quindici, venti piani, ed erano
decine. Mi sembrava di essere il ragazzo della via Gluck. Le vie delle
mie scorribande in bicicletta erano ormai tagliate da arteria di tre corsie a scorrimento veloce, collegata direttamente con la Cruzeiro do Sul,
un'unica direttrice che cambiando solo il nome (Tiradentes, 23
Maio fino a Jabaquara) permette, quasi senza semafori, di tagliare
Sampa da nord a sud. Il paesaggio era completamente mutato, anche la via dove ho abitato per vent’anni sembrava
essere situata in un altro luogo.
Intanto ripensavo ad alcune delle località che ho conosciuto lungo
il mio viaggio in Italia appena conclusosi: Firenze, Napoli, Salerno, Bologna,
Milano. Sempre le stesse, in sostanza, da anni e anni. Che quando uno
si allontana, al ritorno trova tutto quanto al suo posto. Quella sì
che mi sembrava una forma di rispetto. Invece qui ti allontani un
momento (cosa volete che siano, dopotutto, cinque anni?) e trovi
tutto sottosopra. La qual cosa mi indispettiva parecchio. Chi si era
permesso di ridurre casa mia in quel modo? E potevo ancora
considerarla tale? Il viaggio che avevo iniziato sembrava ostinato a
non voler concludersi.
Come in ogni città straniera, dopo i prezzi e la fisionomia del paesaggio, tocca
fare i conti con la lingua. Cosa c’entra, direte voi, dal momento
che sono brasileiro? Beh, dalla mia uscita erano accadute parecchie cose: il “mio” Cazuza se ne era
andato; quel Fernando Henrique, faro della sinistra moderata, sembrava ormai un
Berlusca qualsiasi; il “da Latta” che avevo appreso in Italia era ormai
dimenticato. E oltretutto in radio imperversavano le musiche caipira che all’epoca sentivo solo nell’interno
del paese o nei programmi di Rolando Boldrim. Beh, il mondo gira, direte
voi: tutto normale. Solo che da queste parti, lo slang ha una
energia che, se ti stacchi per un po’ di tempo, finisci con
il perdere. Nuove forme di linguaggio vengono adottate anche dai media come
modo consolidato di esprimersi, e il risultato era che non capivo un’acca di quel che mi si diceva: raccontavo le cose e mi sentivo rivolgere un “dieci”
(dez), e guardavo inebetito. Mi aspettavo almeno un “da Latta”, ma il dieci mi lasciava proprio male. Mi sentivo vecchio, parlavo in un modo che nessuno usava più.
Per aumentare la disperazione, alla mia compagna veniva dedicata un’attenzione
straordinaria. Non era semplice gelosia e mi spiego: al ramo
italiano della mia famiglia non sembrava vero di poter avere a che fare, da vicino, con una italiana vera. Per cui fioccavano inviti a cena
nei quali si verificano situazioni surreali: italiani con ormai trenta, quarant’anni di brasilianità si rivolgevano a mia moglie in un italiano che neanche lei riusciva a
comprendere. La maggior parte di essi si esprimeva in dialetto, e
soltanto la sommaria conoscenza di alcuni di questi dialetti
da parte di mia moglie le consentiva di rispondere almeno alle domande più banali. In particolare, una coppia di italiani, lei siciliana e lui abruzzese, si
parlavano da sempre solo in portoghese perché non conoscevano i rispettivi dialetti. E si rivolgevano a mia moglie usando questi dialetti, chiedendo cose di un’Italia di trenta, quaranta, cinquant’anni
prima. Il mio disagio emergeva nell'osservare tutta questa gente legata
a una terra che io e mia moglie sapevamo non esistesse più, come abitanti di un Atlantide
qualsiasi. E, guardando al Brasile, mi sentivo anch’io un cittadino di Atlantide.
Presi a girare da solo, ma non aiutava. Scendendo per la mitica Volontarios da Patria,
un tempo principale via commerciale di Santana, non riuscivo a
scorgere i palazzi dietro alle insegne dei negozi. Non mi ero mai accorto che le insegne fossero così grandi, così invadenti. Mi ero ormai abituato alle insegne dei negozi italiani,
di modeste dimensioni e integrate nell’architettura dell'edificio,
che ti lasciano comunque vedere la città. Qui era tutto coperto, non riuscivo
neppure a capire se il fabbricato dietrostante (doveva pur essercene
uno) fosse vecchio o nuovo. Le strisce pedonali erano identiche
a quelle che già conoscevo, ma in Italia le utilizzavo per attraversare la strada in sicurezza,
mentre qui nessuno sembrava avere spiegato ai nativi che avessero anche questa finalità. Gli autobus, poi, mi riaccendevano una claustrofobia che credevo ormai
superata essendo pieni di sbarre, e rendendo il mitico viaggio a scrocco
impossibile. E chi ne capiva più il funzionamento? In alcuni di
essi l'entrata non era più posteriore, bensì anteriore! E io ero sempre
dalla parte sbagliata.
L’inquinamento, a São Paulo, c’e’ sempre stato. I fenomeni di “inversione termica”, che ogni tanto soffocavano la città, li percepivo solo
leggendo il giornale. Invece, ora, oltre alla tosse, mi perseguitava un mal di testa costante. Il fumo mi faceva svenire.
Verso il centro, vado al Viaduto do Chà e non credo a qual che vedo: dov’e’ lo Anhengabaù? Niente, sommerso: al posto del familiare e caotico crocevia di macchine c’era un’immensa isola pedonale,
e le auto passavano di sotto. Più avanti la 23 Maio sembrava
volersi infilare sotto il fiume Pinheiros. Ma che fanno, passano sotto l’ibirapuera? Ma cosa
hanno fatto a questa città? L’Ipiranga e Sao Joao? Meno male, ancora lì.
Persino la notte, vecchia complice, mi aveva tradito: non c’era più il mitico
bar das putas, alla fine di via Paraìso. Il Bexiga era tutto cambiato, anche se i locali erano gli stessi. Augusta e Higienopolis non
li bazzicava più nessuno, e spuntavano dei cosiddetti caipirodromo che, onestamente, non mi suscitavano la minima voglia di andarci. Macunaìma, VivaEu, Valparaiso: roba del passato. Anche il vecchio Mambembe, dove conoscevo tanta gente, non c’era più. Questa città non rispetta niente,
mi dicevo, non c’era più neanche lo stabile, giù tutto, demolito.
Gli amici non aiutavano. Loro, rimasti in questo pianeta, erano
logicamente girati insieme a esso, ed erano completamente cambiati. Passi il cambio
di casa, passi il cambio di lavoro, ma esageravano: gli sposati si erano separati, gli scapoli avevano figli, e la maggior parte aveva cambiato anche mestiere.
Nel periodo in cui tornai in Brasile era in corso il boom degli
istituti di credito: ogni piccolo gruppo ne formava uno, e c'era
sempre qualche amico che ne faceva parte. Non so valutare, ma a
giudicare dall'iter necessario a creare un istituto di credito, fra la facilità brasiliana e la virtuale impossibilità italiana, la via migliore forse stava nel mezzo.
Ma chi la praticava? Intanto, per chiunque, ricco o povero, la metà degli introiti continuava a figurare nella voce “casa”: almeno questo non era cambiato.
Difficile aggiornare i discorsi, sembrano passati vent’anni, e invece
ne erano passati solo sei. E per concludere, nota veramente dolente, l’Aids aveva mietuto davvero un numero enorme di vittime, e ne conoscevo parecchie. Normale, in quel vortice. Allucinante, per
me, ma non si riesce ad avere la vera misura di un fenomeno finché non ci si
allontana.
Dopo appena una settimana, ero ormai convinto che il mio Brasile non
esistesse più. Era questo il nuovo mondo? Dopo sei anni trascorsi a
valutare l’Italia con occhi da brasiliano, ora mi trovavo a
osservare il Brasile con occhi da italiano. Sei anni passati a trovare
i difetti del Vecchio Mondo come per mantenere un esile filo
collegato alla mia terra di origine, mentre ora i difetti li trovavo
proprio all’origine. A cosa ero rimasto collegato, fino ad ora? Ecco,
concludere un viaggio forse vuole dire anche questo: fare i conti
con i ricordi allacciati a questi luoghi “reali”, esistenti, ormai,
solo nella memoria. E la riprova di questa forma di dissociazione
era proprio scorgere il ramo italiano della mia famiglia come
affetto da una schizofrenia che li portava a credere che il Bel
Paese fosse qualcosa che esisteva solo nella loro testa.
C'è poi da dire che spesso le cose cambiano in superficie, ma non
nella sostanza. Nel fare i conti con la mia assenza, avrei dunque
dovuto individuare e liberarmi di tutto ciò che non era essenziale. Dopotutto,
pensavo, se mi sono trovato così bene nel vecchio mondo si deve anche a come riuscivo a districarmi
in quello “nuovo”. E allora, cercando di mettermi l’animo in pace,
cominciai a disfarmi di tutti gli orpelli inutili. Come la burocrazia brasiliana, o, meglio, la sua assenza: avevo una vecchia moto, e,
levata la spanna di polvere di sei anni, mi ero accorto che era ancora
commercialmente appetibile. Ogni domenica, nell’Anhembi, in un parcheggio enorme, si svolge un mercato dell’auto usata.
Andai a due, tre, quattro trattative e riuscii a vendere la moto.
La sicurezza
in merito alla vendita la garantisce un servizio telefonico del
pubblico registro automobilistico brasiliano: digitando il numero
della targa è possibile ascolta una voce elettronica che ti elenca
virtù e peccati non assolti del mezzo. Di domenica. I soldi girano
per contanti, e in caso di assegno se ne riparla il lunedì. Il passaggio di proprietà si fa,
se per contanti, la domenica stessa: sul retro del libretto di circolazione c’e’, prestampato, il contratto di vendita.
Dopo la revisione annuale (che dura un’oretta) si può ritirare la
nuova versione del libretto con i dati del nuovo proprietario. L’unico passaggio veramente burocratico è il riconoscimento della firma,
che si va a effettuare in un ufficio chiamato cartorio.
Un'op'erazione della durata di mezzora e dal costo di due lire. Fatto. Il mercato gira. Tanto per ribadire che fare presto si
può. Passaporto, identità, mancate elezioni, ecc, tutto risolto in tre giorni.
Passarono i giorni, e un po' di “churrascos” contribuirono a farmi
riavvicinare a qualcosa di familiare. Una ormai abbandonata collezione di dischi
in vinile nel frattempo trovò adeguata collocazione in uno dei più
tradizionali negozi musicali di Sampa, nelle gallerie del centro, il
Baratos Afins. La stessa fine la riservai alla collezione di fumetti di Hugo Pratt,
che presero posto tra gli scaffali di un ragazzo che chissà se
avrebbe preso anche lui zaino e passaporto, dopo averli letti tutti.
Sampa comunque affascina, sia per i suoi ritmi forsennati, sia per quel che offre. I locali, la musica ovunque, la giungla di grattacieli, locali, motel di lusso (e non), le case di 30 piani accanto alle case di lamiere
intanto lasciavano stupita mia moglie. Ma Sampa mi andava stretta, oppure troppo larga.
Con la scusa di
farle vedere il nord, scappammo verso Salvador, finendo a Maceiò non senza prima
aver sostato in autostrada, fra Salvador e Maceiò, per ragioni di sicurezza: quasi un
chilometro di strada era senza asfalto e “presidiata” dalla malavita locale. Passare di notte a proprio rischio e pericolo.
Era un’autostrada federale, mica una stradina privata. Meglio aspettare. Ma non era in Sicilia che imperversava la mala? Mah. A Maceiò ci
ospitò un vecchio amico passato dalle lande milanesi qualche anno prima, e un po’ di spiaggia e
di birra sulla spiaggia mi rimisero per un po’ in pace. Ma era
agosto e, nonostante il caldo, in tv facevano vedere Porto Alegre innevata. Con la neve, capite?
Neve! E io mi convincevo sempre di più che il mio Brasile non esisteva più,
sfumato come un accordo di Hermeto o un hai-kai di Leminsky. Dal bar sulla spiaggia si
sentivano uscire le note di Sina di Djavan, che è di Maceiò. Peccato la
cantasse Loredana Berté. Era dunque tempo di ritornare a Milano. E
lo feci.
Tornatore dice che quando lasci un luogo, se torni dopo poco non trovi niente di quanto hai lasciato. Bisogna lasciar passare molto tempo, per tornare e trovare tutto com’era prima.
Non mi ci vollero tanti anni: appena tre, ed eccomi ritornare in
Brasile con la compagna ormai moglie e una bimba di tre anni che non vedeva l’ora di visitare i nonni. In poco tempo la “italianinha”
aveva conquistato tutti, specialmente il cuore del ragazzino accanto. Diventata
padrona della lingua e facendo precedere le sue frasi da un “moço, por favor”
riusciva a farsi capire da chiunque. In breve tempo era diventata una fan della
spiga de milho (panocchia), del suco de cana e del coco
verde, e si stupiva che la mamma si aspettasse ogni volta di trovare il coco maturo, dentro. Ormai
era più brasiliana di me, a riprova che la brasilianità si può
acquisire meglio da piccoli, come per le lingue. Vedevo, in lei, tutto
ciò che era il Brasile per me. Ma il momento di tornare arrivava, e
vidi straziato che anche lei cercava di fissare nella memoria tutto
quello che stava lasciando, che cercava di capire dove fosse la sua vera casa.
Oggi mi consolo pensando che ne avrà, di tempo, per capirlo da sola, e proprio questa sua iniziazione al viaggio conclude degnamente il mio.
Avverto qualcosa di simile alla gelosia perché non saranno ormai molti i viaggi
nei quali sarò ancora io il compagno d’elezione.
Ma, tutto sommato, come dice Cazuza, anche a viaggiare da solo un compagno di viaggio lo si trova sempre. E
allora le passo il bastone del viaggiatore volentieri, consapevole
così come un giorno lo scoprirà anche lei, che “navegar è preciso, viver
não è preciso”. Roda mundo, roda gigante, roda moinho, roda piao, e adesso, roda lei. Auguri,
baixinha.
Un grazie a tutti quelli che sono venuti, insieme a me, fino a qui.
E’ stato un bel ri-viaggiare, ma per me è ormai tempo di scendere.
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