Fine
di una dinastia di ceramisti: i Cardoso
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La
ricostruzione della preistoria amazzonica è stata possibile, per la
maggior parte, attraverso lo studio dei tratti culturali evidenziati nella
ceramica archeologica, associati ai metodi di datazione, agli studi
linguistici e paleo-ambientali. Basandosi sulle
differenze tecnologiche osservate nella ceramica, alcuni archeologi hanno
cercato di identificare le aree culturali e i tipi di cultura che le hanno
prodotte. Nell’Amazzonia
brasiliana, la ceramica Marajoara
e la Tapajonica sono una piccola
dimostrazione dell’accurato lavoro delle antiche tribù indigene che
abitavano, principalmente, nell’Isola di Marajó – che si trova nella
foce del Rio delle Amazzoni tra i suoi bracci nord e sud – e attorno a
Santarem – situata nel Basso Amazonas a 701 km da Belém, bagnata dal Rio
Tapajós. Sono artefatti che ricordano quelli etruschi, greci e di altri
posti del mondo. Ceramica Marajoara
La
prima fase è quella del periodo degli Ananatuba (verso il 1100 a.C.),
gruppi di agricoltori la cui ceramica presenta una tecnica già pienamente
sviluppata, caratterizzata da disegni ben rifiniti e da tratti incisi con
ombre. Questo periodo dura fino al 200 a.C., quando scompare in seguito al
dominio e all’assimilazione da parte dalla cultura successiva. Della
seconda fase, conosciuta come dei Mangueiras, sono stati rinvenuti utensili di buona qualità, con una grande varietà di forme e tipi,
decorati con linee parallele e incrociate. Questa fase dura,
all’incirca, fino all’anno 100 d. C. La
terza fase, dei Formiga, è considerata povera dagli studiosi: non
presenta uno stile marcato, e la ceramica è di qualità inferiore a
quella delle fasi precedenti. Questo popolo è sopravvissuto fino
all’anno 400 d.C. La
fase dei Marajoara, invece, nasce da popoli che possiedono un livello
socio-culturale più elevato dei precedenti. La complessità e la
raffinatezza delle tecniche decorative della ceramica, molto elaborata,
dimostra che è prodotta da artigiani specializzati. Vengono introdotti
altorilievi e bassorilievi nei vasi domestici e cerimoniali, ma anche in
urne funerarie, statuette, tanghe e panche. Verso il 1350 la fase
Marajoara scompare, forse espulsa o assorbita da nuovi immigranti. L’ultima fase, Aruã, è caratterizzata da una ceramica povera, semplice. Soltanto le urne funerarie, considerate come il prodotto più caratteristico di questo periodo, hanno delle incisioni. La scomparsa di questo gruppo tribale è dovuta alla conquista, colonizzazione e catechesi dell’isola da parte dei portoghesi. Scompaiono del tutto all’inizio del XIX secolo.
Ceramica
Tapajonica
La
ceramica Tapajonica, o della
cultura Santarém, non ha avuto da parte degli studiosi la stessa
attenzione dedicata a quella Marajoara.
E’ considerata più recente e possiede forme e stili di decorazione
differenti, che
ricordano il barocco. Si differenzia dalle altre per la
libertà di
interpretazione del produttore. E’ asimmetrica, caratterizzata dalla
ricerca di maggiore realismo e originalità. La quantità di ornamenti dei pezzi rende poco immediata la loro lettura. C’è una predilezione per la fauna regionale, e questo realismo animalista è uno degli elementi che la differenziano dalla ceramica Marajoara. Un’altra differenza è che non esistono urne funerarie, poiché i Tapajós non seppellivano i propri morti. Questo popolo aveva una cultura completamente differente da quella degli abitanti dell’isola di Marajó. Le
tribù del Tapajós si estinguono nel secolo XVII, anch’esse in seguito
a catechesi, schiavitù e malattie.
I Cardoso di Icoaracy
Di generazione in generazione, tecniche e linguaggio iconografico della ceramica si sono formalizzati tramite le riproduzioni, fino ad arrivare ai giorni nostri. La maggior parte delle ceramiche indigene riprodotte, però, cominciavano ad avere ben poco in comune con gli originali. Mestre Cardoso ha percepito questa distanza e ha deciso di rimanere fedele alla ricchezza culturale dei suoi antenati. E'
già leggenda. Non solo il suo lavoro, ma lui stesso: Raimundo Saraiva
Cardoso ha cominciato a fare ceramica da bambino. Sua madre, Lucila,
discendente del popolo Aruã dell’isola del Marajó, produceva pentole,
piatti ed altri utensili ed ha trasmesso al figlio non soltanto il suo
talento ma anche i suoi segreti. La
leggenda racconta che, da piccolo, Raimundo ha avuto una febbre talmente
alta che l’ha fatto delirare. Durante la malattia, incosciente, è
uscito di casa sotto la pioggia. In questa occasione gli Encantados (l’equivalente, per gli indios, degli ‘orixas’
baianos, ndr) della
foresta rapirono la sua ombra e la restituirono solo a condizione che
dedicasse la sua vita alle storie e alle tecniche degli antichi popoli
della foresta, a tradurre in arte la fantasia della millenaria cultura
indigena. Lui
stesso racconta che durante l’infanzia ha sempre sentito parlare dei
miti e delle leggende amazzoniche come, per esempio, quello delle Uiaras che rubavano i bambini che attraversavano il fiume a
mezzogiorno. E’ cresciuto, quindi, con le storie degli encantados,
cosa tipica della cultura dell’arcipelago del Marajó. Nonostante
avesse fatto soltanto le elementari, Raimundo Cardoso inizia presto a
frequentare musei e biblioteche per documentarsi sulla ceramica indigena
in Amazzonia per migliorare la sua attività, finché scopre le opere
esposte nel Museo Emilio Goeldi, a Belém. La bellezza delle ceramiche Marajoara e Tapajonica lo colpiscono al punto da fargli abbandonare
il lavoro che aveva per dedicarsi interamente alla ricerca e riproduzione
dell’arte ceramica indigena. Cardoso
parte quindi per la foresta alla ricerca di semi e pigmenti usati come
coloranti nei pezzi originali della collezione del museo. Gira per
cimiteri indigeni alla ricerca di vestigia delle forme e delle tecniche
originali dei suoi antenati. Si dice che sia partito per questa missione
raccomandato personalmente dagli Encantados.
Questa ricerca gli ha permesso di andare oltre quello che aveva imparato
con Dona Lucila, sua madre. Dopo
questo periodo ha avuto l’autorizzazione per riprodurre i pezzi che
componevano la collezione del Museo Goeldi, aiutato da tutta la famiglia
(moglie e quattro figli) e seguito dagli archeologi del Museo stesso. Un
lavoro che è durato due anni e il cui risultato è che le sue repliche si
sono meritate certificati d’autenticità nei quali si riconosce la
fedeltà agli originali. I cinquanta pezzi realizzati in questa occasione
sono riproduzioni così perfette delle ceramiche Marajoara
e Tapajonica che è impossibile distinguere gli originali delle copie Questo
suo lavoro ha richiamato l’attenzione di critici europei, americani e
giapponesi che hanno organizzato esposizioni in importanti centri
mondiali. In Brasile, tuttavia, il riconoscimento del valore artistico di
questa opera è limitato; pochissimi progetti ed iniziative hanno tentato
di riscattare la grandezza di questo lavoro. Soltanto collezionisti e
studiosi molto specializzati hanno dato attenzione alla sua produzione.
E’ un peccato che, dopo alcune mostre, la maggior parte delle
riproduzioni sia scomparsa e mai più si è saputo che fine hanno fatto. La
soddisfazione che i Cardoso provano quando riproducono l’arte dei loro
antenati non è proporzionale al risultato economico. Lo si capisce
osservando le condizioni dell’ambiente di lavoro della famiglia . Il
figlio Levi, anche lui ottimo ceramista, non ha nessuna voglia di seguire
le orme del padre Raimundo. E’ cresciuto vedendo come si approfittavano
della disponibilità del padre. La mancanza di riconoscimenti, di
incentivi alla produzione, di divulgazione delle opere lo ha demotivato. Mestre
Cardoso però non demorde, parla con tristezza della proposta di fare una
scuola per insegnare ai bambini a lavorare la creta. L’idea è stata
discussa dai politici locali; hanno fatto tante promesse, però il governo è
cambiato e la questione è stata dimenticata. Ma Cardoso continua a pensare
che sarebbe un atto molto costruttivo, poiché la ceramica è un elemento
creativo della cultura amazzonica. Peccato che non esista una politica
governativa specifica che, salvaguardando la memoria, promuova cultura e
mercato. La
mancanza di appoggio al lavoro dei ceramisti, forse, è il principale
motivo che ha portato gli altri ceramisti di Icoaracy – dove la famiglia
Cardoso vive dagli anni ’60 - ad allontanarsi dai disegni originali,
molto elaborati, che richiedono quindi molte ore di lavoro. Secondo
Mestre Cardoso “nella fretta della riproduzione, si è persa la tensione
alla fedeltà agli originali, semplificando le forme ed i tratti, per
facilitare la produzione in serie e la domanda del mercato”. Da
artigianato è diventato industria, con riproduzione in serie, fatta in
fretta senza i dovuti trattamenti che danno garanzia di solidità. É
polemico su questo: “l’artigiano deve essere cosciente che se vende
come Marajoara qualunque tipo di
vaso ad un turista, vende in verità una falsa immagine della nostra
cultura”. Nel
tentativo di riscattare la scienza dei ceramisti primitivi, i pezzi
riprodotti dalla famiglia Cardoso dimostrano che, tra le innumerevoli
ragioni per preservare l’Amazzonia, esiste anche quella relativa alla
espressione artistica dei suoi popoli. Per farlo, però, bisogna avere
appoggio economico. Con i soli elogi non si riesce a creare né riprodurre
niente, si rischia solo di perdere la memoria storica...
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Fim
de uma
dinastia de ceramistas: os Cardoso
por Dulce Rosa Rocque
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A
reconstituição da pre-história amazônica foi possível, na sua maior
parte, através de estudo dos traços culturais evidenciados na cerâmica
arqueológica, associados aos métodos de datação, aos estudos linguísticos
e paleambientais. Baseados nas diferenças tecnológicas observadas na cerâmica,
alguns arqueologos procuraram identificar, então, as áreas culturais e
os tipos de cultura que a produziram. Na
Amazônia brasileira, a cerâmica Marajoara e a Tapajônica são uma pálida
amostra do trabalho primoroso das antigas tribos indígenas que ocupavam,
principalmente, a Ilha do Marajó (que se encontra na foz do Rio Amazonas
entre seus braços Norte e Sul) e Santarém (situada no Baixo Amazonas a
701km de Belém, mas banhada pelo Rio Tapajós). São artefatos que
lembram aqueles etruscos, gregos e de outros lugares do mundo. Essas
tribos indígenas que se estabeleceram às margens do Rio Tapajos e na
Ilha de Marajó fundaram uma verdadeira dinastia de ceramistas. A arte
desses povos, manifestação indissociável do homem, corria porém o
risco de desaparecer. Mestre
Cardoso, um dos últimos representantes dessa extensa linhagem, fez
muito mais do que se podia esperar. E’ ele o responsável pelo resgate
das técnicas primitivas usadas pelos índios para fazer a cerâmica da
região amazônica, a qual, segundo os estudiosos, floresceu a partir do
ano 1000a.C., quando teve inicio a primeira fase da sua evolução. Ceramica
Marajoara
Na
Ilha do Marajó foram identificadas cinco fases arqueologicas,
correspondentes a niveis de ocupação e culturas diferentes. A
primeira fase é aquela do periodo Ananatuba ( aproximadamente
ano 1100a.C. ) constituida por grupos de agricultores incipientes
cuja cerâmica apresenta uma técnica ja plenamente desenvolvida,
caracterizada por desenhos bem acabados e por traçados incisos com
sombras. Ficaram alí até o ano 200a.C., quando desapareceram, dominados
ou assimilados pela fase seguinte. Da
segunda fase, conhecida com Mangueiras, foram encontrados objetos utilitários
de boa qualidade, com uma variedade de formas e tipos, adornados com
linhas paralelas e entrecruzadas. Esta fase dura, mais ou menos até o ano
100d.C. A
terceira fase, Formiga (do ano 100a.C a 400d.C.), considerada pobre pelos
estudiosos, não apresenta um estilo muito marcante. A cerâmica è
inferior aquela das fases anteriores. A
fase Marajoara, em vez, è formada por povos que possuim um nível socio
cultural mais avançado dos demais. A complessidade e o refinamento da técnica
decorativa da cerâmica, muito elaborada, demonstra que foi produzida por
artesões especializados. Apresenta técnicas variadas como a introdução
de altos e baixos-relevos tanto nos vasos domésticos e ceremoniais como
também nas urnas funerarias, estatuetas, tangas e bancos.Nêsse periodo
se encontram cerâmicas com variedades de decoração em que as cores
preta e vermelha são usadas sobre o branco. Desaparecem
aproximadamente no ano 1350 talvez expulsos ou absorvidos pelos novos
imigrantes. A
ultima fase, Aruã, é caracterizada por uma cerâmica pobre, simples. Sòmente
as urnas funerárias, consideradas a característica desta fase, são
decoradas. O fim deste grupo, no inicio do século XIX, deu-se a causa da
conquista, catequese e colonizaçã da Ilha do Marajó.
Ceramica
Tapajonica A
cerâmica Tapajônica, ou da cultura Santarém, não teve a mesma atenção
dedicada à Marajoara, da parte dos estudiosos. E’ considerada mais
recente e possue formas e estilo de decoração diferentes lembrando o
estilo barroco. Salienta-se das demais pela liberdade interpretativa do
oleiro. E’ assimetrica, caracterizada pela busca de um maior realismo e
originalidade. A
quantidade de ornamentos das peças faz com que a sua leitura não seja tão
imediata. Nota-se uma predileção pela fauna regional e é este realismo
animalista um dos elementos que a diferencia da cerâmica Marajoara. Outra
diferença é que não produziam urnas funerárias pois não enterravam
seus mortos. Esse povo tinha uma cultura diferente daqueles que habitaram
a Ilha do Marajó As
tribos do Tapajós se extinguiram no século XVII, favorecidas pela
catequese, escravização e doenças.
Os
Cardoso de Icoaracy
De
geração em geração, as técnicas e a linguagem iconográfica foram se
formalizando através de reproduções, até chegarem aos nossos dias. Porém,
a maior parte das cerâmicas
indigenas reproduzidas começavam a ter bem pouco em comum com os
originais. Mestre Cardoso
percebeu isso e resolveu se manter fiel à riqueza cultural dos seus
antepassados. Ja
virou lenda, não só o seu trabalho, mas êle mesmo: Raimundo
Saraiva Cardoso começou a
fazer cerâmica que ainda era criança.
Sua mãe, Lucila,
descendente do povo Aruã da ilha do Marajò, produzia panelas, potes,
pratos e outros vasilhames e transmitiu ao filho, não sòmente seu
talento mas seus segredos também. Uma
lenda conta que, quando era menino, Raimundo teve uma febre muito alta que
o fez delirar. Durante esse período, inconsciente, saiu de casa sob forte
chuva; foi nessa ocasião que os ‘Encantados
da floresta’(o equivalente, para os índios, dos ‘orixas’ baianos) se apropriaram da sua sombra e condicionaram sua devolução
à dedicação ritualistica às histórias e técnicas dos antigos povos
da floresta; a traduzir na sua arte a fantasia da milenar cultura indígena.
Êle
mesmo conta que durante a sua infância ouvia falar muito dos mitos e das
lendas amazônicas como, por exemplo, das ‘uiaras que roubavam as crianças
que passavam pelos rios ao meio-dia”. Cresceu, portanto, ouvindo
historias dos ‘Encantados’, coisa típica da cultura do arquipélago do Marajó. Mesmo
se tinha cursado sòmente o primeiro grau, desde cedo começou a
frequentar museus e bibliotecas pesquisando sôbre a cerâmica indígena
na Amazônia a fim de melhorar a propria criação, até que descobriu as
obras expostas no Museu Emilio Goeldi, em Belém. A beleza da cerâmica
Marajoara e Tapajônica o encantou. Abandonou o trabalho que fazia e
passou a dedicar-se à pesquisa e reprodução da arte cerâmica indígena.
Embrenhou-se
na floresta atrás das sementes e dos pigmentos que eram usados como
corantes nas peças originais da coleção do museu. Revirou escombros de
cemitérios indígenas à procura de
vestígios da forma e da técnica original de seus antepassados. Dizem que
partiu para essa missão pessoalmente incumbido pelos “Encantados”. Foi
através dessa pesquisa que o artista conseguiu ir além do que aprendera
com D. Lucila. Depois
desse período teve então autorização para reproduzir as peças que
compunham o acervo do Museu
Emilio Goeldi. Nisso foi ajudado por toda a familia (mulher e quatro
filhos) e foi assessorado pela equipe de arqueologia do Museu. Êsse
trabalho durou dois anos e o resultado, perfeito, foi que suas réplicas
mereceram certificados de autenticidade
nos quais se reconhece a fidelidade em relação aos originais. As 50
peças feitas nessa ocasião são reproduções tão perfeitas das cerâmicas
Marajoara e Tapajônica que é impossível distinguir os originais das cópias.
Êste
seu trabalho mereceu a atenção de críticos europeus, americanos,
japoneses e foram organizadas exposições em importantes centros mundiais.
No Brasil, entretanto, o reconhecimento do valor artístico dessa obra foi
limitado. Pouquissimos projetos e iniciativas tentaram enaltecer e
resgatar a grandeza daquelas obras; sòmente colecionadores e estudiosos
muito especializados deram atenção a sua produção. Pena que a maior
parte dessas peças, depois de uma exposição, não foi mais encontrada.
Sem alguma explicação foi dada como… desaparecida A
satisfação, do ponto de vista interior, que provam ao reproduzir essa
arte, todavia, não é proporcional ao retorno financeiro. Isto se nota,
inclusive, olhando o ambiente de trabalho da familia, hoje. O filho Levi,
também ótimo ceramista, nem sonha em seguir a mesma estrada de pai
Raimundo. Está desmotivado; cresceu vendo como se aproveitavam da
disponibilidade do pai. A falta de reconhecimento, de incentivo à produção,
de divulgação dos trabalhos feitos, o desanimou. Mestre
Cardoso
porém não desanimou e fala com tristeza da proposta de fazer uma escola
para ensinar as crianças a trabalhar o barro.
O argumento foi discutido pelos políticos; fizeram tantas
promessas, mas o governo mudou e a questão foi esquecida. Mas êle
continua pensando que isso seria muito construtivo, pois a cerâmica é um
segmento criativo da cultura amazônica. Pena que não exista uma politica
governamental específica que, para salvaguardar a memória, atenda os
seus dois eixos básicos: cultura e mercado. A
falta de apoio ao trabalho dos ceramistas talvez seja o motivo principal
que levou os outros artesãos de Icoaracy - onde vive a família Cardoso
desde o final da década de 60- a se afastarem um pouco dos desenhos
originais, muito trabalhosos, que requerem portanto muitas horas de
trabalho. Diz Mestre Cardoso
que “na febre de reprodução,
perdeu-se a preocupação com a fidelidade em relação aos originais,
simplificando-se a forma e o riscado, para facilitar a produção em série
e o atendimento à demanda”. Em vez de artesanato virou indústria,
com reprodução em série, produzidas
às pressas sem o devido tratamento que garante a solidez das mesmas. Mestre
Cardoso
é polêmico sôbre isso. “O artesão
precisa se conscientizar que vendendo qualquer tipo de vaso para um
turista, dizendo que é marajoara, está vendendo uma falsa imagem da
nossa cultura”. E’ claro que a sua opção è diferente daquela
feita pelos outros artesãos. As
peças que a familia Cardoso
produz, no tentativo de resgatar a ciência dos primitivos ceramistas,
fazem ver que, entre as inúmeras razões para a preservação da Amazônia,
existe também aquela relacionada à expressão artística dos seus povos.
Para fazer isso porém precisa ter apôio financeiro, só com elogio não
se consegue criar nem reproduzir nada, se corre sòmente o risco de perder
a memória histórica…
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