Storie di vita e di morte nella grande discarica Una comunità ha abitato nel lixão di Alverenga, alle porte di S.Paolo (seconda parte)
di
traduzione di Gianluca Notarianni
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Tra cielo e terra “
Quello che ha fatto non è giustificabile da parte mia in nessun modo. E
adesso chi paga sono i figli, loro stanno soffrendo con tutto quello che
sta succedendo, ma povera me, non
ho niente con cui aiutarli. Li posso
nutrire solo con il mio
affetto”. Nella misera casa il pavimento è di terra, le pareti d’argilla e il tetto di eternit. Le lampade restano quasi tutto il tempo accese perché la luce del sole non riesce a penetrare all’interno. L'abitazione è costituita da due ambienti, una stanza e una sala divise da una cassapanca trasformatasi in tavolo da cucina. Alcuni magneti ornano il frigorifero. Nonostante fosse parecchio miope e con gli occhiali ormai vecchi, Maria Aparecida preparava decorazioni con le calamite per abbellire porte e frigoriferi. Le vendeva per 5 reais. La
baracca di Maria Aparecida e Raimundo Nonato Souza è un punto
d’incontro, da quando le figlie Ivanilda, Ivone ed Ivonete si sposarono
e andarono a vivere accanto ai genitori. La famiglia vive lì dal
1977, quando il padrone della baracca permise che loro rimanessero lì
senza pagare nulla. Pagarono solo i primi tre mesi, e tempo dopo
ne presero possesso definitivamente. La madre di Naca racconta che
il proprietario gli dette quel terreno per fare crescere i figli, i nipoti
ed i pronipoti. “ Stiamo qui da allora, e qui sono
cresciuti i miei figli, i miei nipoti e presto arriveranno, i pronipoti. Nella
piccola stanza dormivano Maria Aparecida Raimundo e dieci figli. Solo
Ivonete, la figlia più piccola, nacque nel Lixão.Oggi ha 24 anni. “La famiglia crebbe tanto, non speravo che potesse crescere così. Ho avuto
11 figli.” Pian
piano i genitori di Ivanilda misero a posto quello spazio. Raimundo piantò
vari alberi e le piante di caffè che stanno intorno alla casa non
nascondono la provenienza dei coniugi: la città di Belo Horizonte, sita nello Stato
del Minas
Gerais. Raimundo ci dice che gli alberi che stanno intorno alla casa la proteggono “
Il vento che soffia qui è molto forte, la mia baracca ancora non è
caduta proprio per questo”. Prima di essere tra i primi abitanti che andarono a vivere intorno al Lixão, la coppia e i loro figli in nove anni traslocarono varie volte a São Paulo, a Belo Horizonte e a Diadema, finchè non fissarono la loro dimora definitiva. I genitori di Naca lasciarono la loro città natale nel 1968 diretti a São Paulo. “Venimmo a cercare lavoro. Avevo un figlio di tre mesi e arrivammo qui a cercare fortuna”, racconta Maria Aparecida. La prima cosa che le fece paura fu il freddo. “ A quel tempo a São Paulo piovigginava sempre. E quando arrivai, Dio mio, che cosa terribile tutta quella pioggia e quel freddo. Arrivai al punto di piangere. Dissi a mio marito che volevo andare via”. Ma
per i genitori di Ivanilda la difficoltà maggiore era costituita dal
fatto che non sapevano dove andare. “Allora ci recammo nella casa di un
amico, situata nella favela di Vergueiro”. Dopo
circa un mese da che vivevano lì Maria
Aparecida perse il primo figlio, morto per meningite. ”Gesù, ne
soffrii
molto, ancora di più perché era il primo figlio che tenevo tra le braccia, anche se
ero già incinta del secondo. Non avevo nessun parente qui. Fu terribile.
Ma grazie a Dio sono riuscito a superare. Non al punto che quando arriva un altro figlio
tu ti dimentichi dell’ altro, ma dà un sollievo. Nacque un bambino
molto sano e anche il parto fu tranquillo. Una mattina mi alzai e
andai a farmi un bagno dentro un catino. Dio mi aiutò ad avere l’ idea
di fare il bagno lì dentro. Quando stavo lavandomi il bambino venne alla
luce e cadde all’ interno del catino”. Dopo che la favela di Vergueiro fu chiusa, andammo a vivere a Diadema, nel Jardim Inamar e successivamente nel quartiere Eldorado. “Nell’ Inamar il terreno era abusivo, allora Raimundo preferì comprare un piccolissimo pezzo di terra nell’Eldorado dove costruì una stanza e una cucina. Dopo ritornammo a Belo Horizonte. Andammo lì e ritornammo quasi subito qui”. La
mancanza di una dimora fissa fu risolta 24 anni fa, quando andarono a
abitare definitivamente nel terreno Joaninha a Diadema, uno di quelli che si trovano nelle
vicinanze del Lixão.
“A quel tempo era solo foresta, solo eucalipti.
Era bellissimo vivere qui. Era pieno di verde. Ora è tutto
inquinato. Ma a quel tempo non lo era . Si poteva ascoltare il canto degli
uccelli, una cosa meravigliosa”. La madre di Ivanilda ricorda il sentimento che provò la prima volta che vide il Lixão, cinque anni dopo che la discarica aveva iniziato a funzionare. “Mi spaventai, arrivai lì in cima e rimasi sconvolta” . Ci disse che mai aveva visto tanti rifiuti. Oltre ad essere una cosa terrificante, era anche molto pericoloso a causa dei camion che viaggiavano a grande velocità per la strada. “Ma dopo mi abituai e lo affrontai”. Nonostante avesse paura, Maria Aparecida andava molte notti nel Lixão per trovare qualcosa da dare da mangiare ai maiali che allevava. Inoltre, nel periodo in cui il marito era disoccupato, lavorò anche raccogliendo rifiuti che dopo rivendeva. “Non mi piaceva proprio, era faticoso, oltre a essere rischioso”. Raimundo
non lavorò mai con i rifiuti. Fin da quando arrivò nello Stato di São
Paulo cominciò a scaricare i camion di combustibile della Esso. Nel
‘92 lasciò e iniziò a lavorare come becchino
nel cimitero vicino a casa. Ci rimase nove mesi e dopo andò via.
Ritornò nel ’93. Lasciò nuovamente il lavoro nel ’94 e non riuscì più
a trovarne un altro. “Ho cercato, ma non ho trovato nulla:
al giorno d’oggi è difficile per una persona della mia età
trovare un posto di lavoro”. A 55 anni Raimondo cominciò a dipendere dagli aiuti dei figli, almeno sino al 16 luglio del 2001. “
Per lo meno il
Lixão era la nostra fonte di guadagno. Gli altri
credono che noi sopravvivessimo con i resti di cibo che trovavamo lì. Non
è così. I nostri figli raccoglievano i rifiuti e con la vendita ci
sostentavamo. E oggi? Cosa possiamo fare?
Tutta la mia famiglia ebbe un danno dovuto alla chiusura del lixão.
Non c’è alcun dubbio”. Ma
secondo Raimundo, il danno non fu determinato solo dalla chiusura. “Siamo stati
danneggiati anche a causa del traffico di droga, che a quel tempo
era molto intenso”. Dopo
vari tentativi e trasferimenti, Raimundo racconta che avrebbe voluto
ritornare a Belo Horizonte, ma ne aveva vergogna. “Come faccio a
ritornare senza niente?. Sono andato via per ottenere qualcosa, e ora che
faccio?”. A 62 anni di età Raimondo racconta di come tutta la sua vita fu contrassegnata da grandi difficoltà. “La vita del povero è sempre difficile. Quando non ha problemi finanziari, a volte si presentano problemi di salute. Noi passammo un periodo in cui se fosse morto qualcuno della famiglia non avremmo avuto il denaro necessario per il funerale”. Maria Aparecida ringrazia Dio per averla fatta stare vicino ai suoi figli e ai nipoti; questo le è sufficiente per sentirsi una persona felice. Non esiste modo di separare la madre di Naca dalla sua fede. Da 22 anni lei frequenta la Chiesa Evangelica Assemblea di Dio: per lei la fede è sempre stato un punto di riferimento importante della sua vita perché la ha aiutata a aumentare la sua forza e la volontà di lottare e vincere. La casa e il sogno “Io non sono molto felice. Allegria è
avere buona salute”.
La frase di Raimundo, che ha perso il colore naturale della sua pelle a causa
della vitiligine, riflette l’angustia di chi non è riuscito ad ottenere
quello che sempre aveva sognato. ”Io avrei voluto costruire. Perché
la baracca, quando soffia il
vento, fa paura. Se dovessero cadere gli eucalipti, ci crollerebbe tutto in
testa”. Raimundo passa gran parte del tempo camminando tra gli alberi che ha piantato. Pur sapendo che il terreno non è suo, rimane perplesso circa la possibilità di dover lasciare la sua casa affinché l’area sia bonificata . “ Io non ho modificato in alcun modo il terreno, mi sono limitato a coltivarlo e a piantare alberi”. La possibilità che le famiglie vadano via da lì per recuperare tutta quell’area rimane ancora un’incognita. Per prima cosa sarebbe necessario rimuovere le case che si trovano molto vicine al lixão e che possono essere esposte a possibili crolli. Tuttavia il problema ancora non è stato risolto. Tutto dipende dagli studi che indicheranno le modalità di recupero. Saranno presentati in un documento (Tca) elaborato dall'assessorato all’Ambiente del comune di Diadema, preliminare a un accordo tra il Ministero dell’ Ambiente ed i comuni di Diadema e São Bernardo. La definizione delle clausole di accordo ritardarono l’inizio dei lavori per il recupero dell’area. Per
questo non è possibile affermare se la famiglia di Ivanilda deve lasciare
la propria casa. Mentre nulla è ancora deciso, le famiglie che dipendevano
dal lixão continuano a vivere nell’incertezza.
Dietro i
rifiuti “Lavoravo notte e giorno. Non andavo a lavorare tutte le notti perché a volte non ce la facevo. Se per esempio di giorno c'erano molte esalazioni, andavo di notte”. Ivone
Aparedida de Souza, 30 anni. La sorella di Naca è uno dei tanti
personaggi che ha vissuto con il lavoro svolto nel lixão e come la maggior
parte delle famiglie che dipendeva dalla vendita dei rifiuti trovati nel
lixão, ha avuto un futuro incerto dopo il 16 di luglio. Durante
gli anni di duro lavoro nella discarica il suo corpo
si è modificato. E'
ingrassata acquistando oltre trenta chili. Alla domanda se volesse fare una dieta per ritornare a
pesare 55 chili rispose: “io seguo una dieta. La vita è riso e
fagioli, fagioli e riso. E’ una dieta costante”. Ivone
ha 4 figli. Con il denaro che veniva dalla vendita dei rifiuti, lei e il
marito sostenevano i figli e aiutava inoltre i genitori Maria Aparecida e
Raimundo. “Con l’alluminio raccolto riuscivamo a guadagnare
100-150 reais ogni 15 giorni. Ma raccoglievamo anche cartoni ed un carico
di mille chili rendeva anche 100 reais. Per riuscire a raccogliere questo
carico lavoravamo due o più mesi”. Dai
rifiuti, Ivone, prendeva anche derrate alimentari per i propri bisogni. “
Arrivavano molti prodotti buoni, una volta arrivò persino una cassa con
bottiglie d’ olio ancora sigillate. Ancora oggi uso il sapone in polvere
che ho trovato lì. Giungevano nel lixão prodotti che ancora non erano
scaduti, ricordo che presi dell’olio e dell’aceto che scadevano solo nel
2005”. Oltre
a raccattare i rifiuti, Ivone lavorò come colf , ma preferiva
lavorare tra i rifiuti: ”preferivo lavorare nel lixão perché nelle
famiglie dove ho lavorato
mi trattavano peggio di un cane.” Lei
lavorava nella discarica situata
dal lato del Comune di Diadema, dove era possibile depositare solo residui
di costruzioni civili. “ Il vero problema del lixão non fu tanto
Diadema, ma i rifiuti che cominciarono ad arrivare da tutte le parti: São
Paulo, São Caetano do Sul, Santo André, São Bernardo do Campo.
Iniziarono ad arrivare persino camion da Santos e Guarulhos, ma era ovvio
che non erano dei Comuni, ma di imprese private. Nessuno sapeva che cosa
essi trasportassero”, ci spiegò Antonio Fidelis, direttore del
Dipartimento Ambientale e di Sviluppo Sostenibile di Diadema. Ivone
pensa che fosse ingiusto che alcuni raccattatori guadagnassero di più
rispetto ad altri. Per questo considerò giusta la chiusura del lixão “
Nel modo in cui stava andando negli ultimi giorni, da un lato
pensai che era molto meglio che fosse stato chiuso, dall’altro sapevo che ci avrebbe
nuociuto. Funzionava così: chi aveva il
suo spazio, guadagnava. Io restavo tutto il giorno lì senza avere la
possibilità di raccattare nulla. E penso che il lixão non era mio, ma
neanche degli altri. Se uno gode di un diritto, anche gli altri dovevano
avere lo stesso diritto. Per questo fui in parte contenta della sua chiusura.” Il
maggiore problema è non avere il denaro sufficiente a pagare i debiti. “Se ancora continuassi a lavorare nel lixão, non avrei ancora tutte queste
bollette da pagare. Mai
avevo pagato in ritardo una bolletta. Tra poco mi staccheranno il
telefono. Provo vergogna a vedere che mi staccano tutto perché no ho
soldi per pagare; tutto questo perché il Lixão è stato chiuso. Dopo
la chiusura, Ivone ottenne un sussidio dal Comune di Diadema
per poter aiutare la famiglia. “Non sono molto contenta:
prima solo con la vendita dell’ alluminio io e mio marito guadagnavamo
150 reais ogni 15 giorni, ora solo io, ricevo 181 reais al mese e ciò non
è sufficiente per mantenerci. Inoltre, devo pagare la luce ed il gas,
oltre agli alimenti naturalmente. Con 100 reais faccio una spesa che dura
15-20 giorni. Ma non è solo di riso e fagioli che abbiamo bisogno.” Dopo
il 16 luglio, Ivone cominciò ad avere nostalgia di quella che lei
definisce “vita da cani” proprio per la mancanza di altre
opzioni di lavoro: “Non ho una professionalità. Ho sempre lavorato
o raccattando rifiuti o come domestica in casa. Sto cercando di trovare un
lavoro presso la famiglia. Ma anche così, è difficile.” La
figlia minore
Ivonete Aparecida de Souza è
l’unica figlia di Maria Aparecida nata
nel Lixão. Per questo, tutti la chiamano Tiquinha. ”Mi piace qui.
Ma il mio obiettivo è quello di trasferirmi perché già mi sono
stancata. Conosco questo posto come il palmo della mano, riuscirei ad
andare da un posto all’altro anche a occhi chiusi. ”Trasferirsi
di casa è solo uno dei dei tanti sogni di Tiquinha. Anche lei fa progetti,
e ha la speranza che un giorno tutto questo cambi. Nelle sue parole
percepimmo un sentimento di fiducia che era un poco assente nelle altre
persone che fino a quel momento avevamo intervistato. Sposata
da cinque anni, ancora non ha figli. “Appena sposata volevo avere dei
figli, ma adesso no. Questo perché voglio tornare a studiare. Mi sono
fermata dopo le elementari, per me è un sogno tornare a studiare.
Un'altra mia aspirazione è fare la centralinista, ma penso di essere
ancora troppo giovane. Dunque, ho la capacità di raggiungere questi miei
obiettivi e solo dopo penserò ad avere un figlio. Per adesso io e mio
marito preferiamo lottare. Ora sto lavorando come domestica tre giorni
alla settimana. Quando il lixão chiuse, tutto cominciò a essere
difficile e incontrai grandi difficoltà, ma meno di quelle di Ivone che aveva
già quattro figli. Abbiamo un debito perché il mio letto si è
rotto e ne ho dovuto comprare uno nuovo, facendo rate per 15 mesi.
Avevo messo anche il materasso direttamente in terra, ma faceva troppo
freddo. La bolletta del telefono è scaduta da tempo, ma anche qualora lo
staccassero, la pagherei comunque. Sto combattendo per avere una vita
migliore. Se c’è una cosa che mai perdo è la speranza.” “Mi piace disegnare. Voglio studiare per arrivare un giorno a cogliere i
frutti del mio impegno. Ma su una cosa concordo con Ivone: è un bene che
il Lixão sia stato chiuso. “Lavorai raccogliendo rifiuti insieme
a mio marito notte e giorno anche quando pioveva. Non so come, non mi
ammalai. Con il corpo bagnato mi asciugavo davanti ai falò che
accendevamo per asciugarci. Sono pronta per affrontare qualsiasi cosa. “
Non voglio restare così. Guadagno 180 reais al mese. Volevo cercare
qualcosa per potere aiutare mia madre. Nonostante sia sposata, aiutare i
miei genitori resta un mio un dovere. Sto qui, resistendo.” La
dura lotta che Ivanilda combatte, da quando ovvero nacque 24 anni fa,
continua oggi con l’aiuto di un sussidio che il Comune di Diadema le ha
riconosciuto dopo la chiusura del Lixão. Il
lavoro che lei faceva nel Lixão era lo stesso di quello di Ivone. Accatastavano i rifiuti portati dai camion per poi trascinarli nel loro
posto di raccolta. Era massacrante.”Qui in basso (nella casa
di Maria Aparecida), può fare anche molto caldo, ma ci sono gli alberi. Lì
in cima no, lì è tutto aperto e fa ancora più caldo. Io mi sentivo
ancora più scura di quanto già non fossi. Era caldissimo, portavo con me
delle bottiglie d’acqua che si surriscaldavano in un attimo. Era
proprio un lavoro estremamente faticoso. Solo chi lavorava là in cima
sapeva come era sofferto”. Rifiuti,
droga e religione
Il
rapporto tra Cleber Nonato de Souza con il Lixão cominciò quando egli
aveva sei anni e accompagnava la madre Maria Aparecida al lavoro. “A otto, nove anni iniziai a raccogliere il materiale riciclato”. Di
quest’epoca, ora che ha 27 anni, ricorda di come fosse maltrattato dai
più grandi di lui. “Ricordo che un giorno
arrivò un camion pieno di alluminio, che all’ epoca poteva
rendere come tremila reais. Il conducente lo scaricò e me lo regalò. Io
avevo 13 anni. Allora sopraggiunsero altri ragazzi che mi picchiarono e
presero tutto l’alluminio”. Per
Cléber tutto quello che si riferisce al Lixão ormai è definitivamente
passato. ”Di quel periodo ricordo che venivano moltissimi camion a
scaricare. Arrivava molto materiale. Esisteva una specie di mafia che
comandava nel Lixão, che
aveva la priorità su tutto quello che raccattavamo.” “Era una mafia costituita da circa venti persone. Erano più forti di noi.
Prendevano il maggior numero di camion che scaricavano i materiali più
buoni.
Noi raccattavamo solo i rifiuti urbani. Quelli delle imprese private
andava a loro. Molti bambini venivano picchiati.” Proprio
per il fatto che a volte veniva picchiato fu uno dei motivi che lo
spinsero ad andare via da casa. “ Mio padre e mia madre mi diedero una buona educazione, solo che io decisi di essere autosufficiente
e non volli più convivere con i miei genitori. La strada fu la mia
maestra di vita. Più tardi arrivai alla conclusione che avevo bisogno di
loro. E allora feci ritorno a casa. Il problema era che a quel tempo avevo
già intrapreso una vita criminale. A causa delle sofferenze sopportate
nel Lixão, pensavo anche di vendicarmi di quella banda. Ma grazie a Dio
sono cambiato. Oggi sono sposato, ho i miei figli, e ho messo la testa a
posto.” Durante
il periodo che Cleber viveva per strada, passava il giorno nel Lixão e di
notte andava per l’Area Verde a São Bernardo. Per uscire da questo
tunnel fu aiutato dalla Chiesa Battista situata nel vicino quartiere di
Assunção. Fino a 20 fece uso di cocaina, marijuana, hascisc e colla. Non
fumò il crack perché ancora non era molto accessibile. Con l’ aiuto
della religione riuscì a venirne fuori: “ora non uso più niente,
non fumo nulla. Neanche le sigarette”. Cleber
ritiene che il fatto di vivere nel Lixão abbia influito sulle scelte che
egli fece durante questa epoca di “vita di crimine”. “Penso che
a causa del Lixão ho appreso delle cose che sarebbe stato meglio
non aver conosciuto. Ma non voglio dire che fu tutta colpa del Lixão;
ero io che volevo conoscere cose nuove.” Quando
ritornò a casa dei suoi genitori, tornò a raccattare i rifiuti fino al
luglio del 2001. Inoltre da gennaio a maggio di questo stesso anno, lavorò
nel Centro di Ecologia e Cittadinanza del Comune di São Bernardo.
Successivamente abbandonò il Centro. “Andai via perché il denaro
che ricevevo lì non era sufficiente a vivere”. Secondo lui i
pagamenti che riceveva non superavano mai
i 100 reais al mese. “Ritornai a lavorare nel Lixão perché
era più remunerativo, anche il doppio rispetto al Centro. Rispetto alla
discarica, il Centro era molto più organizzato, non pregiudicava la mia
salute, ma noi non guadagnavamo quello di cui avevamo bisogno: il denaro
sufficiente per far
sopravvivere i nostri figli.” Dopo
la definitiva chiusura del Lixão, Cleber cercò di ritornare al Centro,
ma gli fu impedito in quanto risiedeva in Diadema. “Ora non sto
facendo niente, sto mandando curriculum per vedere se in qualche maniera
trovo un lavoro, ma per le persone che come me
non hanno studiato, l’ unico posto da cui poter trarre un
beneficio per il nostro benessere e per quello dei nostri figli, è il
Lixão”.
Terra
Costruzioni
abusive, una discarica illegale
e la Represa Billings inquinata. Una serie di problematiche legate alla
regione dell’ABC (comuni dell’hinterland della capitale Paulista,
ndr),
precisamente al confine tra São Bernardo e Diadema, dove si trova il Lixão
di Alvarenga che in poco tempo accolse nelle sue vicinanze molte persone
giunte lì per mancanza di casa o di lavoro. In
basso alla montagna di immondizia, tonnellate di rifiuti in
decomposizione. Gas che inquinano l’aria, il suolo e pregiudicano la
salute umana. Lo chorume
(il liquido nero che si
forma a causa della decomposizione dei rifiuti organici, ndr) si mescola
all’acqua piovana. Questa miscela si trasforma in
una sostanza che penetra nel sottosuolo e arriva fino alle falde
acquifere o si riversa direttamente nella Represa Billings, il bacino
idrico che fornisce l’acqua alla Grande São Paulo, situato a soli 300 metri dal Lixão.
“Negli anni ’70, la regione presentava molti problemi inerenti alla
destinazione finale dei rifiuti. Molte persone intuirono che in quell’
area veniva estratta sabbia per le costruzioni civili”, dice
Sonia Lima, direttrice del Dipartimento Ambientale di São Bernardo. A
quel tempo, il luogo dove si è formata la montagna di rifiuti, era
disabitato. Nel 1973 il Comune di São Bernardo iniziò una serie di
espropri. La
legge 898 del 1972 per l’uso delle acque e la 1172 del 1976 sui criteri
di occupazione di queste aree influirono sull’andamento del processo
di esproprio. “Lo scopo di queste aree protette era di fornire
l’acqua alla popolazione. Capimmo che alcune attività
non erano compatibili. Per esempio, il problema dei rifiuti”, spiega
Horacio Wagner Matheus, controllore del Dusm ( Dipartimento per l’Utilizzo del Suolo Metropolitano) un settore del Cetesb (Compagnia
Tecnologia di Risanamento Ambientale) che applica le predette leggi. All’epoca, il ruolo di controllo spettava alla Segreteria degli Affari
Metropolitani attraverso l’Empalsa (Impresa Metropolitana della Grande
São Paulo); successivamente il ruolo di controllo passò alla Segreteria
dell’ Ambiente, composta dal Cetesb e dal Dums. Sonia
Lima dice che la legge di protezione delle acque nel suo articolo
25 è molto chiara: “E’ proibito depositare rifiuti, creare fosse
biologiche e qualsiasi sistema di trattamento dei rifiuti in un’ area di
protezione delle acque. Qualsiasi legge quando proibisce è inappellabile.
Di fronte a questa legge il Comune di São Bernardo desistette
dall’espropriare.” Ma la suddetta legge non impedì che i Comuni di São Bernardo, Diadema e São Caetano continuassero a utilizzare quell’area per scaricare i rifiuti, nonostante non fosse di loro pertinenza. Oltre ai problemi di carattere giuridico ambientale, altri problemi sorsero con la crescita della popolazione. “L’aumento ella popolazione metropolitana, principalmente nell’ ABC, con il processo di industrializzazione iniziato negli anni ’60, fu straordinaria. La città di São Bernardo ebbe una crescita nell’ area di protezione delle acque nell’ ordine del 20% all’anno. E’ un’ assurdità. Non esiste una città che possa sopportare una crescita così grande. Il potere pubblico non ha capacità né finanziaria né tecnica per potere garantire l’ energia elettrica, l’ acqua, le fogne, le scuole e l’ ospedale. La periferia della città era già degradata e l’ aumento della popolazione amplificò questa situazione.” Matheus
che controlla il bacino di Billings disse: “Unitamente alla
promulgazione delle leggi, fu previsto che il problema dei rifiuti fosse
discusso concordato a livello metropolitano, cosa che ancora tutt’oggi
non è ben risolta. Il problema era che i Comuni non sapevano dove
scaricare i rifiuti prodotti se non in quell’ area,
e ciò non ha fatto altro che aggravare la situazione”.
Nel giugno del 1984 vi fu il primo tentativo di chiudere il Lixão. In questa data, la Segreteria degli Affari Metropolitani decise l’interdizione della discarica abusiva. Ma solo nel 1986, avvenne la chiusura che fu considerata definitiva. In un articolo del 4 settembre del 1986 il Diario do Grande ABC affermava: “Il Lixão di Alvarenga a São Bernardo fu chiuso definitivamente ieri”. I Comuni di São Bernardo e São Caetano iniziarono ad inviare i rifiuti raccolti in queste città alla discarica di Mauà. “Il Governo dello Stato di São Paulo, attraverso la
Empalsa, la Segreteria
di Affari Metropolitani e il Cetesb decretò che quell’ area non poteva
essere usata più per ricevere rifiuti. Il Lixão di Alvarenga ricevette
rifiuti che non avrebbe dovuto accogliere oltre a essere utilizzato in un
modo che causò una degrado ambientale ancora più forte”. Continuità “Una sola persona non è in grado di controllare tutto. Sarebbero necessari molti più controllori” afferma Pedro Stich, ingegnere civile del Cetesb a partire dal 1976. Secondo lui proprio la mancanza di controllo genera questa continua entrata di camion e conseguentemente il deposito di rifiuti in un’area inadeguata. Dopo che i Comuni di São Bernardo e São Caetano proibirono di gettare i rifiuti in quell’area, il Comune di Diadema, invece, continuò a utilizzarla. Secondo il Cetesb, nel 1994 il Comune di Diadema smise di gettare i rifiuti domestici nell’area. Ma nel 1997, lo stesso Comune fu autorizzato a usare il Lixão per scaricare materiale da costruzione, provvedendo, inoltre, a controllare l’ingresso degli automezzi. Nel 1998, dopo che si constatò che l’area veniva utilizzata ancora per scaricare materiale non autorizzato, i comuni furono obbligati a installare barriere fisiche che impedissero l’accesso al Lixão. Entrambi i municipi chiesero una proroga, fino a marzo del 1999, per ricercare uno spazio alternativo. La richiesta fu accolta dal Cetesb, ma poiché i Comuni non realizzarono quanto disposto, il Cetesb fece ricorso alla Seconda Sezione del Tribunale Civile di Diadema. Già il Pubblico Ministero, sin dal 1990, aveva iniziato un’azione civile nei confronti del Comune di São Bernardo per i danni causati all’ambiente, spiega il Procuratore di Diadema Stella Tinone Kuba. Dopo 10 anni l’azione civile passò in giudicato. Stella dice che “il processo fu molto lungo in quanto non si trovavano i periti per constatare il danno ambientale. Per quanto ovvio, sempre è necessario, nel corso di un’ azione giudiziale, produrre nuove prove. I Comuni contestarono il fatto che tutto quell’ inquinamento ambientale fosse addebitabile a loro. Per questo fu necessario trovare nuovi periti che dimostrassero i danni arrecati all’ ambiente” Dopo la sentenza, il ministero fissò il giorno 27 di Novembre come data di chiusura definitiva, ma il comune di Diadema affermò che stava completando le opere per una nuova discarica, e il sostituto procuratore decise di concedergli una proroga .Allo stesso tempo i comuni fecero ricorso contro la decisione del tribunale di Diadema e ricorsero al tribunale di Giustizia dello stato di São Paulo. Nel gennaio del 2001, nonostante il benestare del Cetesb , la nuova giunta del comune di Diadema decise di non usare più quel terreno, e incominciò a studiare con il Comune di São Bernardo misure alternative alla chiusura del Lixão, concretizzatasi il 16 luglio 2001. Le attività nel Lixão furono bloccate dai due comuni per ritardare alcune norme presenti nel TCA (Termine di Aggiustamento della Condotta) nonostante l'accordo non fosse stato sottoscritto sino a ottobre del 2001. Fino a questa data, il Tribunale di Giustizia ancora non aveva deciso il destino del Lixão di Alvarenga. I Frutti
Un’immensa
montagna di rifiuti si apre alla nostra vista. Sembra che abbia una vita
propria a causa dei gas che continua ad emanare. Tutto intorno migliaia di
case mal costruite. Questa visione che sorge nella Strada di Alvarenga, la
strada del Lixão, evidenzia il degrado ambientale e sociale causato dalla
discarica. Negli anni ’90 furono condotti studi che comprovano il
livello di degrado. Nel
1998 il Comune di São Bernardo contattò l’ IPT ( Istituto di Ricerca
Tecnologica) per diagnosticare i problemi della zona. Angelo
Consonni, tecnico dell’Istituto, disse che il terreno probabilmente era
già contaminato. “Il terreno di quell’ area è inquinato. Esiste
ancora la possibilità di fermare l’ inquinamento”.
Ricerche condotte in alcune parti dell’area mostrano l’esistenza di problematiche che possono essere associate alla
contaminazione. “Furono identificate, a una profondità di 7-8
metri, alcune anomalie. Abbiamo controllato solo una parte”, disse. Egli
continua dicendo che la falda acquifera è molto bassa. In alcuni posti la
flora arriva alla profondità di circa 5 metri. Per questo si riscontra un
inquinamento del sottosuolo. Non si sa, con certezza, quali rifiuti furono depositati nell’area e che pericolo
possano rappresentare per la terra, l’acqua e la popolazione. Il
tecnico afferma, inoltre, che le persone che vivono intorno al Lixão sono
esposte ai seguenti rischi: crolli, principalmente di quelle case che si
trovano di fronte alla discarica, utilizzo di acqua sotterranea
contaminata e contatti con gas emessi dalla decomposizione dei rifiuti. “Non si sa esattamente quali gas siano”. Il
professore Alberto Pacheco, dell’Istituto di Scienze Geologiche
dell’Università di São
Paulo fu coordinatore di uno studio che il Cepas (Centro di Ricerca delle
Acque Sotterranee) realizzò tra il ’93 ed il ’94 nella zona: “Analizzammo i pozzi e
constatammo che le acque erano contaminate”. Mentre
in merito alle acque sotterranee, non
vi fu nessuna dichiarazione perché si rendevano
necessari più controlli. Pacheco
dice che “lo chorume (liquido nero che si forma con la
decomposizione dei rifiuti organici, ndr) cadde nei torrenti più vicini che
a loro volta si riversavano nel lago artificiale di Billings”. Ma non si può affermare, secondo il tecnico, che ci sia una Il rapporto rilevò inoltre problemi sanitari che mettevano a rischio la salute degli abitanti della zona. I maiali allevati nell’area del Lixão erano alimentati con rifiuti organici. Secondo il Cepas mangiare questa carne mal cucinata può arrecare danni alla salute. Nella
relazione si diceva che le persone che lavoravano lì intorno erano
soggette a malattie a causa dell’ambiente malsano e
esposte a incidenti con oggetti taglienti. Inoltre non erano
rari i casi di persone investite da trattori o dai mezzi della nettezza
urbana. Un
articolo pubblicato nel Diario da Grande ABC il 24/3/84 racconta uno di
questi episodi: “avvolta dentro una zanzariera e una busta di
plastica, nuda, posta dentro un cartone, con il cranio sfondato e le gambe
spezzate: così è stata ritrovato il corpo di una bambina nella discarica
del Comune di São
Bernardo nella zona di Alvarenga. Ieri si è scoperto che il camionista,
Josè de Oliveira, di 27 anni, senza rendersene conto, ha investito con un
camion di 16 tonnellate la bambina”. “Sebbene queste ricerche contengano informazioni importanti, queste non sono recenti. Anche quelle condotte dall’Ipt, che fu una delle ultime analisi effettuate nell’area, non sono attuali” disse Antonio Fidelis, direttore del Dipartimento Ambientale e Sviluppo Sostenibile del Comune di Diadema. La
luce
“La chiusura del Lixão fu una decisione del
pubblico ministero, ma faceva parte di una delle esigenze dello stato. La prima e più
importante esigenza fu quella di chiudere l’ area. Successivamente
avrebbe dovuto iniziare
il progetto di recupero” La
frase è di Heitor Maruno, ingegnere civile del Cetesb da 25 anni,
responsabile del comitato di controllo della regione dell’ABC. Ma lui
crede che il recupero totale dell’area sia molto difficile. L’area,
di 40 mila metri quadrati, fu occupata da rifiuti domestici e
industriali. E’ necessario, prima di iniziare la bonifica, condurre
studi dettagliati e specifici sull’inquinamento ambientale. Antonio
Fidelis, direttore del Dipartimento Ambientale e Sviluppo Sostenibile del
Comune di Diadema, afferma che lo stesso Comune considerò la chiusura
della discarica come l’azione più importante da farsi. “Il Lixão
non piace a nessuno. Non credo sia una questione legale ma di buon senso
perché riguarda la salute pubblica ed dell’ambiente. Noi, a prescindere
che la chiusura fosse stata già deliberata dal Pubblico Ministero,
ritenevamo che il Lixão non poteva continuare a esistere sia per
problemi di carattere sociale, che ambientale”. A
seguito della sua chiusura, il magistrato auspica che venga firmato il TCA
(protocollo d’intesa per la bonifica dell’area) proposto ai comuni.
Stela Kuba, responsabile ambientale del tribunale di Diadema, considera la
sottoscrizione di questo protocollo molto importante al fine di accelerare
i lavori di bonifica: “Se questo accordo fosse già
firmato, sarebbe molto meglio, poiché non sarebbe necessario
attendere le decisioni sui ricorsi presentati. Bisogna recuperare la zona
perché al momento è impraticabile. Esiste un serio problema per le
famiglie che vivono nei pressi del Lixão, per questo è importantissimo
bonificare la zona prima possibile, e per fare ciò è fondamentale che
questo protocollo sia sottoscritto”. Viceversa, come afferma Sonia Lima, direttrice del Dipartimento Ambientale di São Bernardo, i Comuni pretendevano ancora discutere con i proprietari, con il Governo dello Stato, con il Cetesb, con la Segreteria Ambientale e il DPRM (Dipartimento delle Ricerche in Risorse Minerali), considerati corresponsabili del funzionamento del Lixão e del bacino di Billings. Sonia disse inoltre che, dopo il 16 luglio 2001, il protocollo non fu più considerato il provvedimento più importante per il recupero dell’area. Nell’ottobre
del 2001, la Kuba affermò che esisteva una petizione per proporre al
tribunale competente in materia ambientale di obbligare i predetti
corresponsabili a partecipare al progetto di bonifica. Era stato anche
contattato un geologo per condurre studi più dettagliati dell’area.
Fidelis concorda sul fatto che anche lo stato deve partecipare alla
bonifica. “Il Lixão fu utilizzato da São
Bernardo e Diadema. E’ un’area di protezione delle acque di proprietà
dello stato, quindi sia i comuni che lo stato dovevano
controllare la
situazione: quando si parla di degrado ambientale non esistono né confini
né frontiere”. Allo
stesso tempo, Pedro Stech, ingegnere del Cetesb, scartò l’ipotesi che
lo Stato potesse partecipare alla bonifica: ”vi sono dati
inconfutabili che la discarica è dovuta ai Comuni”. Per Stech la
maggiore difficoltà nell’attività di recupero sarebbe stata la
mancanza di denaro. Della stessa opinione è Fidelis: “per fare uno
studio valido occorrono dai 300 ai 400 mila reais. Per realizzazione del
progetto sono necessari miliardi e São
Bernardo e Diadema non sono nelle condizioni di poter dare attuazione a
un progetto così costoso”. Sonia disse che il Comune stava aspettando un finanziamento di 5 milioni di reais dalla Banca Mondiale, ma questo denaro sarebbe stato destinato a un progetto di bonifica delle acque dell’Alto Tiete, dove si trova il bacino di Billings. Inoltre lei affermò che esistono ancora 200 mila reais, del governo federale, che possono essere utilizzati. Per adesso i Comuni non possono porre sotto sequestro nessuna proprietà privata. Per
la bonifica della zona bisogna definire, dunque, di chi sia la competenza
dell’area del Lixão anche perché, per decenni, è stata
utilizzata dai comuni e dalle industrie private. Per
l’ ambientalista Carlos Bocuhy, consigliere del Consuma (Consiglio
Statale dell’Ambiente) è fondamentale individuare chi è il
responsabile dell’ inquinamento della zona. Incognita
Secondo
Angelo Consonni, tecnico dell’ IPT (Istituto Ricerche Tecnologiche) la
prima cosa da farsi è trasferire in un altro posto le persone che
attualmente vivono intorno al Lixão. In seguito sono necessari lavori che
assicurino la stabilità fisica del terreno. Né si può rimuovere i
rifiuti da lì, altrimenti il problema sorgerebbe da un’altra parte.
Bisognerebbe, inoltre, stabilizzare chimicamente il terreno attraverso il
drenaggio di gas e ponendo nel terreno microrganismi per velocizzare la
decomposizione dei rifiuti. ”Bisogna fare un sistema di drenaggio
superficiale perché l’acqua non cominci a erodere il materiale: se ciò
avvenisse impedirebbe alle acque piovane di penetrarvi e si
andrebbe a formare il” percolado” (liquido nero creato dalla
decomposizione di rifiuti organici, ndr). Inoltre sarebbe necessario perforare
la montagna di rifiuti per far fuoriuscire i gas e bruciarli in
superficie. Necessitano molti anni prima che si possa affermare che il
terreno è salubre”. E invece, da 30 anni, due milioni di tonnellate di rifiuti in costante decomposizione mantengono viva la discarica abusiva, questo mostro putrescente che è anche metafora di vita e di morte per tante persone.
/// Fine
La precedente puntata, pubblicata sul numero di febbraio, è
consultabile nella sezione "Archivio" della rivista.
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Entre o céu e a terra O
dia 25 de agosto era um sábado de sol quente. Fomos à casa de Maria
Aparecida da Silva, mãe de Naca, à tarde. Quando chegamos lá, soubemos
que Ivanilda havia se separado de Wanderley. De pé na sala, Maria
Aparecida falou sobre a atitude de Naca de queimar o teclado do marido.
“O que ela fez não é justificativa de jeito nenhum, pra mim não. Não
foi mesmo. E agora quem paga são os filhos. Eles sofrem com tudo isso que
tá acontecendo. Mas, coitada de mim, não tenho nada pra oferecer a eles.
Carinho é a única coisa que eu posso dar”. Chão
batido, paredes de barro e telhas Eternit. As lâmpadas ficam quase todo
tempo acesas, pois a luz do sol não penetra com facilidade no barraco.
Dois cômodos: quarto e sala, dividida por uma bancada que se transformou
na cozinha. Imãs enfeitam a geladeira. Durante o tempo que passamos
conversando com a mãe da Ivanilda, ela fazia enfeites de crochê para
vender. Mesmo com os olhos ruins, miopia de dois graus e óculos vencido há
três anos, ela costurava os enfeitinhos que servem para decorar portas e
geladeiras. Ela vende o conjunto a R$ 5. Após o dia 16 de julho, essa
venda estava ajudava no orçamento. O
barraco de Maria Aparecida e Raimundo Nonato Souza, pai de Naca, é ponto
de encontro. A medida em que casaram, as filhas, Ivanilda, Ivone e Ivonete,
montaram suas casas no mesmo terreno. Assim, permanecem unidos. A
família mora no local desde 1977, quando o dono do barraco, de pau a
pique e um cômodo, deixou que ficassem lá sem pagar nada. Pagaram
somente três meses. Depois, tomaram posse por definitivo. A mãe de Naca
conta que o próprio dono os deixou o lugar para criarem filhos, netos e
bisnetos. “Aqui tamos até hoje. E realmente criamos os filhos, já
temos os netos e, daqui a pouco, se não tiver cuidado, vamos olhar os
bisnetos, mesmo.” Nesse
quartinho, dormiam Maria Aparecida, Raimundo e dez filhos.
Apenas a caçula, Ivonete, nasceu lá. Hoje ela tem 24 anos. “A família
foi crescendo demais. Eu não esperava crescer tanto. Tive 11 filhos”. Aos
poucos, os pais de Ivanilda arrumaram o espaço. Raimundo plantou várias
árvores. Os pés de café que rodeiam a casa não escondem a origem do
casal: Belo Horizonte, Minas Gerais. “Esse barraco tem muito tempo,
desde que mudei do lado de lá pra cá.” Ele conta que o mato que fica
ao redor do terreno protege a casa. “O vento que vem é muito forte e
passa por cima. Meu barraco não caiu ainda foi por isso”. Antes,
entretanto, de se tornarem um dos primeiros moradores que viveriam em
torno do Lixão, o casal e seus filhos se mudaram diversas vezes durante
nove anos entre São Paulo, Belo Horizonte e Diadema, até acharem morada
definitiva. Os
pais de Naca deixaram a cidade natal em 1968 rumo à terra da garoa. “Nós
viemos em busca de trabalho. Tinha um filho com três meses e viemos
aventurar aqui”, conta Maria Aparecida. O
primeiro susto dela ao chegar em São Paulo foi o frio: “Nessa época,
era São Paulo da garoa. E, quando eu cheguei, meu Deus. Que coisa terrível,
aquela garoa, aquele frio. Comecei a chorar. Falei pra ele (Raimundo): ‘Eu vou voltar. Você me trouxe pra um gelo, vou
voltar.’” Mas,
para o pai de Ivanilda, a dificuldade foi não ter para onde ir. “Fomos
para a casa de um colega na Favela do Vergueiro”, lembra. Depois
de pouco mais de um mês que chegaram nessa favela, Maria Aparecida perdeu
o primeiro filho de meningite. “Misericórdia, fiquei muito triste.
Muito mesmo porque era o único filho. Apesar que eu tava grávida de
outro. Mas era o filho que eu tinha nos braços. Não tinha parente aqui,
ninguém. Aquilo pra mim foi terrível. Mas graças a Deus consegui
superar. Não que vem um filho você esquece do outro. Mas alivia muito.
Então, eu ganhei o outro. Veio uma criança muito sadia, tanto é que foi
um parto tão feliz. Nem saí de casa. Levantei de manhã, fui tomar banho,
procurei tomar um banho de bacia, sabe? Deus me ajudou de eu ter essa
intenção de fazer isso daí. Quando fui tomar o banho, o nenê nasceu,
caiu dentro da bacia.” Acontecimentos
da vida que acabava de recomeçar em São Paulo. Depois que a Favela do
Vergueiro foi desativada, foram morar em Diadema, no Jardim Inamar e, em
seguida, no bairro Eldorado. “No Inamar, o terreno não estava
legalizado. Pedia para dividir o terreno e enrolavam a gente. Preferi
perder o terreno e comprei a terra no Eldorado. Pequenininho, meio
terreno, e construí lá um quarto e cozinha. Depois, voltamos para BH.
Chegamos lá e voltamos pra cá de novo”. Nessa época, moraram no
Eldorado, mudaram para Piraporinha, em Santo Amaro, na capital paulista, e
retornaram a Eldorado. “Nós mudamos para um monte de lugar. Mudamos daí
pro Marajoara, depois fomos pro outro lado. Viemos para dentro duma mata
aqui atrás tomando conta de um mandiocal. Depois vim para aqui e fiquei.” A
falta de opção de moradia fixa foi então resolvida há 24 anos, quando
se instalaram definitivamente no Sítio Joaninha, Diadema, um dos bairros
que ficam nas imediações do Lixão. “Só era mata, só era eucalipto.
Aliás, eu não reclamo, pra mim era uma felicidade morar aqui. Com verde,
aqui era um eucalipal. Hoje é uma poluição tremenda. Mas nessa época não.
Você ouvia os pássaros cantando. Aquela coisa maravilhosa.” Na
memória, além das mudanças de clima e relevo, a mãe de Ivanilda guarda
a lembrança do sentimento que surgiu quando viu o Lixão pela primeira
vez, cinco anos após o início do aterro. “Me apavorei. Nossa, cheguei
lá em cima, olhei, fiquei apavorada.” Ela diz que nunca tinha se
deparado com lixo. Além de feio, achou também muito perigoso por causa
dos caminhões que transitavam pelo lugar. “Mas depois, na medida do
possível, eu fui me acostumando, eu tive que enfrentar ali”. Mesmo
com o susto, Maria Aparecida ia durante muitas noites pegar lavagem para
os porcos que criava. Mas, além disso, trabalhou dois meses catando lixo
para vender, quando o marido estava desempregado. “Não gostei muito não.
Cansativo, nossa meu pai, arriscado”. Já
Raimundo nunca trabalhou no lixo. Durante a maior parte do tempo, desde
quando chegou no Estado de São Paulo, ele descarregava caminhões de
combustível na Esso. Em 92, deixou o trabalho e foi ser coveiro, no cemitério
perto de sua casa. Lá, ficou nove meses e saiu. Retornou em 1993. Deixou
o emprego novamente em 1994 e nunca mais arrumou serviço. “Procurei,
mas já não achei. Na minha idade é difícil. Hoje em dia uma pessoa de
40 anos é difícil de arrumar serviço”. Aos
55 anos Raimundo passou então a depender da ajuda dos filhos, até o dia
16 de julho de 2001. Maria Aparecida conta que a vida deles toda era
garantida com esse dinheiro: “Pelo menos ali era nosso ganha-pão. A
gente fala isso e pensam que a gente sobrevivia da comida de lá. Não é
isso. É porque ali eles (os filhos)
trabalhavam e a gente tirava o sustento. E hoje? Vai fazer o quê?”. “Minha
família toda foi prejudicada por causa desse Lixão aí. Não resta a
menor dúvida”. Para Raimundo, o prejuízo não foi somente em função
do fechamento. “Nós fomos prejudicados por causa da marginalização
que tinha na época, que era muito tráfico, drogas.”. Depois
de tentativas e mudanças, Raimundo diz que tem vontade de voltar para
Belo Horizonte, mas sente vergonha. “Como é que eu vou chegar em BH,
sem nada? Saí pra conseguir e o que vou fazer? Vontade eu tenho sim,
queria todo sábado, todo domingo.” Aos
62 anos, Raimundo relembra que toda sua trajetória é marcada por
dificuldades. “Pobre sempre passa dificuldade, de todo jeito. Quando não
é financeira, às vezes, você tem um problema de doença ou na família.
A gente teve época aqui que, se morresse um da família, não tinha
dinheiro para fazer o sepultamento”. Maria
Aparecida desabafa: “Eu não vou dizer que eu tô vivendo mal porque
sempre o que eu passo na vida tenho um bom ânimo. Boa eu não posso estar,
porque a vida pra mim é difícil. Pra mim e pro meu velho, a história é
triste demais. Por outro lado, dô graças a Deus de tá junto com meus
filhos. Então, isso já me deixa feliz. O que me faz feliz é isso: meus
netos, meus filhos.” A
palavra “Deus”. Não há como desvincular a mãe de Naca de sua fé.
Maria Aparecida freqüenta a Igreja Evangélica Assembléia de Deus há 22
anos. Para ela, a fé sempre foi importante porque aumentou sua força, a
vontade de lutar e vencer. Quando tem algum problema, afirma com ênfase:
“É aos pés Dele que vou primeiro”. A
casa e o sonho “Eu
tenho muita alegria não. Alegria é estar com saúde”. A frase de
Raimundo, que perdeu toda a cor natural do corpo por causa do vitiligo,
reflete a angústia de não ter conseguido o que sempre sonhou. “Eu
queria construir. Porque isso aqui, quando venta, dá medo. Os eucaliptos,
se caírem, caem pra cá.” Ele
passa grande parte de seu tempo caminhando entre as árvores que plantou e
cultivou. Ora olha para o céu ora abaixa a cabeça e cruza os braços
para trás. Anda sobre o chão, que sabe não ser seu, com a dúvida do
que poderá acontecer no amanhã. Mesmo sabendo que o terreno não é seu,
ele fica indeciso ao ser indagado sobre a possibilidade de deixar sua casa
para que a área seja recuperada. “Isso aí não sei. Eu não modifiquei
nada do terreno, apenas cultivei e plantei.” A
necessidade da retirada das famílias que moram em torno do Lixão para a
recuperação da área ainda é uma incógnita. De acordo com Stela Kuba,
promotora de meio ambiente de Diadema, seria necessário, primeiro,
remover as casas que estão em áreas de risco, ou seja, que estejam muito
próximas ao lixão e possam ser atingidas diretamente por desabamentos. Porém,
o assunto ainda não foi resolvido. Tudo depende dos estudos que irão
definir as diretrizes de recuperação, que vão estar presentes no Termo
de Ajustamento de Conduta (TCA). O
TCA é um documento elaborado pela Promotoria de Meio Ambiente de Diadema,
para que se firme um acordo entre o Ministério Público e as prefeituras
de São Bernardo e Diadema. A definição das cláusulas do acordo e a
assinatura de todos envolvidos adiantariam a recuperação da área. Assim,
a restauração ambiental não estaria sujeita somente à sentença
judicial da ação civil que está em julgamento desde 1990. Atualmente,
esse processo, que o Ministério moveu contra os dois municípios
envolvidos, encontra-se no Tribunal de Justiça Estadual (TJE). A sentença
final, de acordo com Stela, vai demorar de um a dois para ser definida.
Essa previsão foi a partir de 2000, quando Diadema e São Bernardo
recorreram da decisão do juiz da Segunda Vara Cível de Diadema, que
acolheu a pretensão de fechamento, deposição irregular do lixo e
recuperação ambiental do local. Por isso, não é possível ainda afirmar se a família de Ivanilda precisaria deixar suas terras para que se recupere a área. Enquanto nada se define, as famílias que dependiam do Lixão para sobreviver e moram no entorno continuam a viver do incerto.
Bastidores do lixo “Trabalhava
durante o dia e à noite. Eu não ia toda noite porque às vezes não agüentava.
Por exemplo, se de dia tinha muita fumaça, eu ia à noite.” Ivone
Aparecida de Souza, 30 anos. A irmã de Naca é mais um personagem da vida
real que viveu o trabalho no Lixão e, como a maioria das famílias que
dependiam da venda de resíduos para sobreviver, ficou com o destino
incerto após o dia 16 de julho de 2001. Fala com rapidez sobre os casos ligados à necessidade de sobreviver, como a operação de laqueadura. O corpo de Ivone mudou. Ganhou 30 quilos a mais. Mesmo após ter passado por várias mudanças no corpo e na mente, ela encontra um conforto: “Pelo menos, não vou ter mais filho. Esquentar a cabeça com leite...” Ao ser questionada se pretendia fazer um regime para voltar aos 55 quilos, respondeu: “Regime eu já faço direto. A vida é arroz e feijão, feijão e arroz. É o regime de todo dia.” Ivone
tem quatro filhos. Com o dinheiro que ela e o marido ganhavam da venda de
resíduos catados no lixo, a família era sustentada e ainda ajudava os
pais, Maria Aparecida e Raimundo. “Com o alumínio que eu e meu marido
juntávamos trabalhando junto aos meus filhos, a gente conseguia fazer
100, 150 reais. Só no alumínio.” Esse dinheiro é calculado, segundo
ela, por quinzena. Mas ainda recolhiam outros materiais: “Com o papelão,
a gente fazia uma carga de mil e poucos quilos. Dava R$ 100,00. A gente não
vendia a chaparia por quilo. Fazia o monte e pedia R$ 100,00. Às vezes, o
cara dava R$ 80,00. Pra fazer uma carga de chaparia levava de dois meses
ou mais. Então, a gente juntava o material grosso um mês pra vender. Mas
o alumínio é que dá mais dinheiro.” Do
lixo, Ivone aproveitava também mercadorias de supermercado para seu próprio
consumo. “Tinha muita coisa boa que chegava. Cheguei a pegar caixas de
óleo fechadas. Estou usando sabão em pó até hoje, que peguei bastante
de lá. Coisas boas vinham lá no Lixão que ainda nem tinham vencido.
Tinha lata de óleo, de azeite, que peguei e ia vencer em 2005 ainda.” Além de ser catadora, Ivone também já trabalhou como empregada doméstica. Para ela, o trabalho no lixo é melhor. “Preferia o Lixão a casa de família porque as patroas tratam a gente igual a um cachorro.” No
aterro, trabalhava no bota-fora da Prefeitura de Diadema. Esse município
tinha autorização da Cetesb (Companhia de Tecnologia de Saneamento
Ambiental), desde 1997, para depositar somente resíduos inertes, como
entulhos de construção civil. “O
real problema do Lixão nem foi tanto Diadema, mas os materiais que vinham
de todos os lugares: São Paulo, São Caetano do Sul, Santo André, São
Bernardo do Campo. Chegamos até a detectar caminhões de Santos,
Guarulhos. Mas é claro que não eram das prefeituras, eram de empresas
mesmo. E o que tinha nesses caminhões ninguém sabe”, explicou Antonio
Fidélis, diretor do Departamento de Meio Ambiente e Desenvolvimento
Sustentável de Diadema. Esses
veículos, que lá chegavam até dias antes do fechamento, faziam o
descarregamento em partes do território de São Bernardo (cerca de 90% da
área de 40 mil metros quadrados). Segundo
Ivone, esses bota-foras eram comandados também por catadores (como Guará),
que faziam negócios diretamente com os caminhões que iam despejar ou
retirar os resíduos reaproveitáveis. “Se era caminhão pequeno, pagava
cinco reais. Se era grande, pagava dez reais. Depende do caminhão, tinha
caminhão que descarregava ali que pagava até 100 reais. Então, nesse
lugar que era pago, a gente não podia catar.” Ivone
acha que é injustiça alguns catadores ganharem mais que os outros. Por
isso, encontra uma boa causa no fechamento. “Do jeito que tava indo o
Lixão nos últimos dias, em parte eu até achei bom ter fechado. Mas em
outra parte não, porque prejudicou a gente. Era assim: quem tinha
bota-fora tirava dinheiro, porque recebia de caminhão que descarregava e
também pegava dinheiro de material, como alumínio. Tinha época que os
caminhões da Prefeitura iam tão ruins, só lama e terra. Eu ficava o dia
inteiro lá e não catava nada. Aí a gente ia aos caminhões deles (de
quem comandava o bota-fora) pra pegar e não deixavam. Nem no barranco
deixavam. Eu acho que ali era um Lixão, era um terreno que não era meu,
nem de ninguém. Se um tinha direito, todos tinham. Então, em partes, eu
achei bom.” A
maior preocupação é não ter trabalho para pagar as dívidas. “Se eu
tivesse trabalhando no Lixão, não estava com as contas atrasadas. Eu
nunca atrasei uma conta. Estou com meu telefone a tempo de ser cortado. É
uma vergonha ver cortarem porque não tenho dinheiro pra pagar. E minha
prestação atrasada. Tudo porque o Lixão fechou.” Depois do fechamento, Ivone foi cadastrada pela Prefeitura de Diadema para receber a bolsa-salário (R$ 181) e, assim, ajudar a sustentar a família. “Não estou gostando muito não. Porque eu tirava isso aí só no alumínio. Já tirei 150 reais por quinzena só no alumínio, eu e meu marido trabalhando juntos. Agora, só eu vou receber 181 reais por mês, sendo que trabalhava eu, meu marido, meus dois filhos. Não vou ficar só dependendo desse dinheiro. Porque só R$ 181 não dá pra me manter. Porque é gás, compra. A gente não vai ter cesta básica. Só o salário mesmo. Tenho telefone e gás pra pagar. Não é só comida. Comida é o básico. Com 100 reais, faço uma compra pra passar de 15 a 20 dias. Mas não é só arroz e feijão que a gente precisa.” Após o dia 16 de julho de 2001, Ivone passou a guardar lembranças “da vida de cão”, como ela mesma define, e da falta de opção de trabalho: “Olha, eu não tenho profissão. Sempre trabalhei de doméstica e de lixeira mesmo. Tô tentando arrumar um serviço em casa de família de novo. Mesmo assim tá difícil, viu?” A caçula Ivonete
Aparecida de Souza é a única filha de Maria Aparecida que nasceu no Lixão.
Por isso, todos a chamam de Tiquinha. “Gosto daqui. Mas meu objetivo é
mudar, porque já cansei. Eu queria um lugar diferente. Conheço isso
daqui na palma da minha mão. Venho do serviço até de olho fechado, se
quiser. Cansei, gostaria de um lugar diferente.” A
vontade de mudar de casa é apenas mais um dos sonhos de Tiquinha. Ela
também faz planos e diz ter esperanças de que um dia todo seu futuro
mude. O tom de expectativa ao falar de seus objetivos revela uma característica
um pouco ausente no depoimento das outras pessoas com quem conversamos. Casada
há cinco anos, ainda não tem filhos. “No começo, tinha vontade de ter
filhos, mas agora não. Não penso porque pretendo voltar a estudar. Parei
na quarta série e é um sonho voltar a estudar. Um sonho que eu tinha era
ser telefonista. Acho que sou nova ainda. Então, tenho capacidade de
chegar até lá. Quero alcançar algum futuro pra depois pensar em ter um
filho. Agora, eu e meu esposo pretendemos lutar. Tô trabalhando em casa
de família três dias na semana. O Lixão fechou. Foi realmente muito difícil.
Encontrei muita dificuldade, mas menos que a Ivone, porque ela tem quatro
filhos. Estamos com uma dívida porque minha cama quebrou. Tive que
comprar uma. Coloquei o colchão no chão e estava muito frio. Fomos
comprar uma cama e fizemos prestações de 15 vezes. Minha conta telefônica
também está muita atrasada. Mesmo se cortarem, vou pagar. Não gosto de
ficar devendo pra ninguém. Estou lutando, tentando fazer um objetivo na
vida. Só uma coisa que nunca perco é esperança.” “Gosto de desenhar. Quero aproveitar o que sinto ter chance de alcançar ainda. Quero estudar pra chegar um tempo e eu perceber que pelo menos valeu a pena o meu esforço. Mas uma coisa que a Ivone falou que eu também acho é que, em um ponto, o Lixão foi bom mesmo ter fechado. Em outro já não foi. Tem muita família que está hoje com dificuldade, necessitando desse serviço que agora foi tirado delas. Mas, no outro ponto, foi melhor porque lá é um lugar muito sofrido.” “Trabalhei
lá junto a meu esposo de dia, de noite, com chuva. Não sei como não
fiquei doente. Com meu corpo molhado, ficava na beirada do fogo para
esquentar as costas. Nós fazíamos a fogueira para esquentar, nós nos
secávamos com o calor do fogo. Graças a Deus, não cheguei a ficar
doente nenhum dia. Estou pra enfrentar qualquer coisa.” “Não quero só ficar assim. Ganho 180 reais por mês. Queria arrumar uma coisa que eu pudesse ajudar minha mãe. É uma obrigação, mesmo que a gente case, ajudar nossos pais. Estou aí nessa batalha.” A
luta travada há 24 anos, desde o dia em que Ivonete nasceu, continua com
a ajuda da bolsa-salário oferecida pela Prefeitura de Diadema, após o
fechamento. O
trabalho que fazia no Lixão era o mesmo de Ivone. Para ela, os piores
momentos vividos eram os de muito calor. Eles juntavam os resíduos dos
caminhões e depois precisavam arrastar para o mesmo lugar. “A gente saía
puxando papelão, chaparia. Às vezes, era muito distante o lugar onde a
gente colocava. Isso cansava muito. Aqui em baixo (na
casa de Maria Aparecida), pode
ser o calor o que for, ainda tem as árvores. Lá, é aberto, torna- se
mais quente. Eu me sentia mais escura do que sou. Queimava mesmo. Ficava a
marca da blusa. Dava sede. Levava água, mas esquentava, não tinha nem
condições de tomar. Levava gelo, mas era a conta. A água derretia,
ficava muito quente. Era um trabalho muito sofrido mesmo. Só quem
trabalhava lá em cima sabia como era sofrido.” Lixo,
drogas e religião A relação de Cléber Nonato de Souza com o lixo começou aos seis anos, quando ia ajudar sua mãe, Maria Aparecida, a pegar lavagem para os porcos. “Aí, com meus oito, nove anos, comecei a trabalhar, a catar material reciclado.” Dessa
época, ele, que hoje tem 27 anos, lembra dos maus tratos que recebia dos
catadores mais velhos. “Eu me lembro que uma vez foi um caminhão de
alumínio. O rapaz descarregou, era tipo uma caminhonete. Naquele tempo,
se fosse como hoje, esse caminhão daria na base de 3 mil reais de
material. Então, o caminhão descarregou pra mim. Eu tinha uns 13 anos.
Me pegaram, me bateram, pegaram meu material e não pude reagir. A gente
traz as marcas de antigamente que fazem relembrar das coisas passadas.” Na memória de Cléber, tudo que é relacionado ao Lixão passou a ser antigamente, desde o dia 16 de julho de 2001. “As lembranças daquela época é que tinha bastantes caminhões que descarregavam. Vinha bastante material. Naquele tempo, tinha também tipo uma máfia que comandava o Lixão. Então, ela tinha mais prioridade do que nós que catávamos.” “Era uma máfia, uma turma de mais ou menos 20 pessoas que trabalhava unidos. Elas eram mais fortes do que nós. Pegavam a maioria dos caminhões que descarregavam materiais bons. Nós catávamos o lixo urbano. O de firma ia pra elas. Com isso, muitas crianças cresceram revoltadas porque apanhavam.” O
fato de apanhar foi um dos motivos de ele se rebelar e sair de casa. “Eu
cresci revoltado. Meu pai e minha mãe sempre ensinaram a gente andar no
bom caminho. Mas só que, quando chegou uma certa idade, eu quis saber por
mim mesmo, não quis saber mais da convivência dos meus pais. Fui criado
mais na rua, sozinho. Chegou numa certa idade, cheguei à conclusão que
precisava dos meus pais. Foi aí que retornei. Só que nessas alturas, já
tinha me envolvido com a vida do crime. Na minha mente, pelo meu
sofrimento de antigamente no Lixão, até pensava em me vingar. Fazer
alguma coisa com essa turma. Mas graças a Deus ergui a cabeça. Estou
mudado. Hoje, sou casado, tenho com meus filhos, estou com a cabeça no
lugar.” Quando
morou na rua, ele ficava durante o dia no Lixão e à noite ia para a Área
Verde, em São Bernardo. “Eu dormia lá, ficava bagunçando. Tenho dez
passagem na Fubem (Fundação
do Bem-Estar de São Bernardo). Só que a Fubem não me
segurava. Eu só entrava pra comer. Depois, fugia. Quem me ajudou, me
incentivou a sair da vida do crime foi o pessoal da Igreja Batista ali do
bairro Assunção.” Até
20 anos, usou cocaína, maconha, haxixe, cola. Só não fumou craque
porque ainda não era muito acessível. Depois, com a ajuda da religião
que não deixou mais de acompanhá-lo, parou com tudo. “Agora, não uso
mais nada. Não uso cigarro, nada, nada, nada.” Cléber considera que a vivência no aterro irregular influenciou em partes a escolha que fez durante essa época de “vida do crime”. “Acho que, por meio do Lixão, aprendi muitas coisas que não era pra ter aprendido. Mas não quero dizer que seja o Lixão que tenha me jogado na miséria. Foi pela minha idade de crescimento. Estava querendo aprender as coisas.” Após
voltar à casa dos pais, foi catador até julho de 2001. Mas, de janeiro a
maio desse mesmo ano, trabalhou no Centro de Ecologia e Cidadania de São
Bernardo. Deixou o Centro pelos mesmos motivos de Ivanilda: “Saí porque
tava difícil. O dinheiro de lá não dava pra sobreviver.” Segundo ele,
os pagamentos dos meses nunca chegaram a R$ 100. “Voltei
a trabalhar no Lixão, porque tava dando mais resultado. Dava até o dobro
daquilo que eu tirava de lá. Então, o único meio que vi foi sair. O
Centro é um lugar organizado, não ia prejudicar minha saúde. Só que a
gente não conseguia aquilo que era necessário: o dinheiro pra poder dar
sobrevivência para nossos filhos.” O trabalho desgastante não impediu que ele voltasse a trabalhar no lixo. “Tornei a trabalhar até que foi fechado. O Lixão de agora não era igual a antigamente. Antes, não tinha essa fumaça que tinha nesses tempos, que prejudicou a saúde.” Ele contou que sentia bastante cansaço. “Mas o lixo era o único meio de a gente sobreviver. Tinha de enfrentar assim mesmo pra tirar o ganha pão dos filhos, da família. Tinha que aceitar isso, sem preconceito. Tinha de tirar de lá mesmo, principalmente hoje que o emprego tá difícil.” Depois
do fechamento, Cléber tentou voltar ao Centro de Ecologia, mas não
conseguiu por residir em Diadema. “Agora, estou fazendo nada. Somente
andando, mandando currículo nas firmas pra ver se consigo um emprego de
um jeito ou de outro.” Um
mês depois que ficou sem o trabalho no lixo, ele foi fazer um teste para
ser operador de injetora. E percebeu que fazem muitas exigências. “Pra
gente que não tem estudo é somente um lugar tipo o Lixão mesmo que a
gente ia conseguir benefício para nosso bem-estar e para o bem de nossos
filhos.”
Terra Loteamentos
clandestinos, um aterro irregular e a Represa Billings poluída. Uma série
de problemas localizados na região do ABC, especificamente na divisa de São
Bernardo e Diadema, onde se localiza o Lixão do Alvarenga. Um personagem
que aos poucos acumulou moradores nos seus arredores, por falta de moradia
ou alternativa de emprego. De
baixo da montanha de lixo, toneladas de resíduos em decomposição. Gases
que poluem o ar, o solo e fazem mal à saúde humana. Chorume (líquido
preto formado pela decomposição de lixo orgânico) que se mistura à água
da chuva. Essa junção se transforma em percolado, substância que
penetra no solo, chega aos lençóis freáticos ou corre diretamente para
a Billings, a represa localizada a aproximadamente 300 metros do Lixão. “Nos
anos 70, a região apresentava muitos problemas de destinação final de
lixo. Muitas pessoas perceberam que aquela área, e isso é provável, era
de extração de areia para construção civil”, diz Sonia Lima,
diretora do Departamento de Meio Ambiente de São Bernardo. Na
época, o local onde hoje se formou a montanha de lixo, era desabitado. A
Prefeitura de São Bernardo, em 1973, entrou com um processo de
desapropriação da área particular. A
lei 898 do uso do solo dos mananciais, de 1975, e a 1.172, sobre critérios
para a ocupação dos mananciais, de 1976, influenciaram na continuidade
do processo de desapropriação da área que ainda estava em andamento.
“A vocação dessas áreas de proteção de mananciais é fornecer água
para a população. Entendeu-se que algumas atividades não eram compatíveis.
Por exemplo, a questão do lixo”, explica Horácio Wagner Matheus,
agente fiscal do Dusm (Departamento do Uso do Solo Metropolitano), setor
da Cetesb (Companhia de Tecnologia de Saneamento Ambiental) que aplica a
lei dos mananciais. Na
época, entretanto, o papel da fiscalização era da Secretaria dos Negócios
Metropolitanos e personalizado pela Emplasa (Empresa Metropolitana
da Grande São Paulo). Mais tarde, em 1991, essa Secretaria foi extinta e
a responsabilidade por fiscalizar o uso do solo da metrópole paulista
passou para Secretaria do Meio Ambiente, que compõe a Cetesb e o Dusm. Sonia
diz que “a lei de proteção (dos
mananciais) em seu artigo 25 é muito clara: ‘É proibido fazer depósito
de lixo, aterro sanitário, qualquer sistema de tratamento de lixo em área
de proteção dos mananciais. Toda lei, quando proíbe, é inapelável.
Então, diante disso, a Prefeitura (de
São Bernardo) desistiu da desapropriação”, explica. Mas
a lei dos mananciais não impediu que as Prefeituras de São Bernardo,
Diadema e São Caetano continuassem a depositar lixo no local, mesmo que a
área não pertencesse a elas. Paralelamente
aos problemas ambientais e jurídicos que começaram a surgir na década
de 70, o crescimento populacional no ABC atingiu regiões de mananciais. “O
aumento da população metropolitana, principalmente na região do ABC,
com a industrialização dos anos 60, é extraordinário. A cidade de São
Bernardo teve crescimentos na área de proteção dos mananciais, por
exemplo, na ordem de 20% ao ano. É um absurdo. Não existe uma cidade que
possa comportar um crescimento desse. O poder público não tem capacidade
financeira, nem técnica, mesmo em termos de prover serviços, para
atender toda demanda de energia elétrica, água, esgoto, asfalto, escola,
hospital. A periferia da cidade já era degradada. O aumento populacional
provocou uma degradação mais acentuada. Essa periferia coincidiu com as
áreas de proteção dos mananciais, foi criando um envoltório da represa,
que já era muito degradada, e a todo Lixão. Então, todo esse processo
complexo de degradação socioambiental da periferia é um pouco a
característica do crescimento e desenvolvimento urbano”, analisou
Sonia. Outro
problema apontado em relação à região é a dificuldade de se aplicar a
lei naquela época. “No Brasil, tem muito dessa história: essa lei
pegou, aquela não pegou. Não pegar uma legislação é você criar e não
ter meios de aplicar, fazer com que os responsáveis tenham a visão do
processo e obedecer a essa legislação”, diz Pedro Stech, engenheiro
civil e sanitarista da Cetesb desde 1976. Ele se lembra de que ia muito à
área para fiscalizar e advertir as prefeituras quanto aos problemas
ambientais. Matheus,
que fiscaliza a bacia Billings, falou: “Juntamente com a promulgação
da lei, se previa que essa questão do lixo fosse tratada em nível
metropolitano. Coisa que está mal resolvida até hoje.” Ele ainda diz
que o fato de as prefeituras não terem para onde levar o lixo fazia o
problema se agravar ainda mais. E acrescentou: “As prefeituras faziam o
que elas entendiam e não se submetiam ao licenciamento”. Entretanto,
na época em que foi começou a funcionar, ainda não havia a necessidade
de pedir licença aos órgãos estaduais. “Se o Lixão do Alvarenga
tivesse passado por uma licença prévia, ele jamais teria sido instalado
onde foi. Mas naquela época a legislação não previa isso”, explica
Stech. De acordo com ele, atualmente, manter um aterro clandestino a céu
aberto é crime ambiental. Em
julho de 1984, aconteceu a primeira tentativa de cessar as atividades no
Lixão. Nessa data, a Secretaria dos Negócios Metropolitanos decidiu pela
interdição do aterro clandestino, por estar em área de proteção aos
mananciais. Somente
em 1986, aconteceu o fechamento considerado decisivo, segundo manchete do
Diário do Grande ABC de 04 de setembro de 1986: “O Lixão do Alvarenga,
em São Bernardo, foi fechado definitivamente ontem.” As prefeituras de
São Bernardo e São Caetano passaram a encaminhar os resíduos recolhidos
na cidade para o aterro controlado de Mauá. “Nesse
fechamento, o Governo Estadual, por meio da Emplasa, Secretaria de Negócios
Metropolitanos e Cetesb, deu o laudo de que a área, do ponto de vista
judicial, não poderia ser usada para essa finalidade de receber resíduos.
Legalmente, ela não tinha essa capacidade”, lembrou Stech. “O Lixão
do Alvarenga recebeu resíduos que não poderia ter recebido, foi operado
de forma que não poderia e causou uma degradação ambiental muito
intensa”, complementou. Continuidade “Você
não consegue ter um agente controlando aquilo tudo. Você precisaria de
muitos guardas, fiscais”, acrescentou Stech, a respeito da dificuldade
de se controlar uma área tão grande. Segundo ele, isso gera um mecanismo
de continuidade da entrada de caminhões e disposição final de lixo em
local impróprio para esse tipo de atividade. Após
as prefeituras de São Bernardo e São Caetano encerrarem o depósito de
resíduos no lugar, a Prefeitura de Diadema continuou a usá-lo.
Inicialmente, isso era feito somente na parte de seu território, cerca de
10% da área total. Os outros 90% foram ocupados por resíduos de outras
regiões. Segundo
a Cetesb, em 1994, a Prefeitura de Diadema deixou de lançar lixo
domiciliar no local. Mas, em 1997, o município foi autorizado a
reutilizar o Lixão para disposição de materiais inertes. Entretanto, a
Prefeitura deveria fiscalizar e controlar a entrada de veículos. Em
1998, constatou-se que o lugar ainda era usado para o depósito de
materiais não-autorizados. Após multas e averiguação de que a
atividade no local continuava ilícita, as prefeituras foram autuadas a
eliminar a disposição de resíduos na área do Lixão, por meio de
implantação e manutenção de barreiras físicas que impedissem a
entrada de veículos no local. Ambos
municípios pediram então um prazo até março de 1999 para conseguirem
algum destino de terra e entulho. O pedido foi concedido pela Cetesb. Porém,
as prefeituras não tenderam às solicitações. Por isso, a Companhia
encaminhou as penalidades à Segunda Vara Cível da Comarca de Diadema. Nesse
local, já tramitava, desde 1990, a ação civil pública movida pelo
Ministério Público contra a Prefeitura de São Bernardo. O processo, de
nº 250/1990, sustenta-se no artigo 5º da lei nº 7347/85, que
“disciplina a ação civil pública de responsabilidade por danos
causados ao meio ambiente”. “Em
15 de março de 1990, o Ministério Público ajuizou uma ação civil pública
contra as prefeituras de Diadema e de São Bernardo, requerendo a cessação
do lançamento de lixo no local,
que hoje é conhecido como Lixão do Alvarenga”, explica a promotora de
Justiça de Diadema, Stela Tinone Kuba. Ao assumir o cargo, em 1999, ela
se responsabilizou pelo processo. Dez
anos depois, a ação civil foi julgada como procedente. “O processo foi
bastante longo por conta da dificuldade de se encontrar os peritos necessários
para se fazer a constatação de dano ambiental. Por mais que seja notório,
sempre é necessário que no curso de uma ação sejam produzidas as
provas. Pelo menos nesse caso, as prefeituras contestaram o feito, ou seja,
não admitiram logo de início que estava havendo poluição ambiental,
que fosse culpa delas. Por isso, foi necessário se encontrar os peritos
que constatassem efetivamente os danos, desde o lançamento (de
resíduos sólidos), poluição da Represa Billings, dos lençóis freáticos,
contaminação de solo, se estava havendo ou não presença de emissão de
gases”, diz Stela. Após
o julgamento, o Ministério fixou a data de 27 de novembro para o
fechamento definitivo. Mas a Prefeitura de Diadema alegou estar
completando obras para um novo aterro e a promotoria aceitou a adiar a
data. Ao mesmo tempo, os municípios recorreram da decisão da Comarca de
Diadema. A ação foi encaminhada ao Tribunal de Justiça Estadual (TJE). Em
janeiro de 2001, a nova gestão da Prefeitura de Diadema decidiu não usar
o terreno, por se localizar na área central da cidade, mesmo após a
Cetesb ter fornecido autorização para a construção. Segundo
Fidélis, nos primeiros seis meses de gestão, a Prefeitura de Diadema
passou a estudar, junto a São Bernardo, alternativas para fechamento,
concretizado em 16 de julho do mesmo ano. Essa
paralisação das atividades no Lixão foi uma iniciativa dos dois municípios
para adiantar algumas diretrizes presentes no TCA (Termo de Ajustamento de
Conduta), mesmo que ainda não tivesse sido assinado até outubro de 2001.
Até essa data, a Justiça do
Os frutos Os
olhos se deparam com uma imensa montanha de lixo, que parece ter vida por
causa dos gases que não deixam de ser exalados. Ao seu redor, milhares de
casas más construídas. Essa visão, que acontece já na Estrada dos
Alvarenga, ao caminho do Lixão, é uma das primeiras evidências da
degradação ambiental e social causada por sua existência. Na década de
90, foram realizados estudos que comprovaram partes da deterioração. Em 1998, a Prefeitura de São Bernardo contratou o IPT (Instituto de Pesquisas Tecnológicas) para fazer um trabalho de diagnóstico e avaliação dos potenciais problemas da área. Ângelo Consoni, técnico do Instituto, disse que o solo provavelmente estava contaminado naquela época. “O solo naquela região é de alteração. Existem possibilidades de reter a poluição.” Investigações de algumas locais da área mostraram a existência de problemas que podem ser associadas à contaminação. “Foram identificadas algumas anomalias em uma profundidade que varia até sete ou oito metros. São algumas regiões que poderiam ser investigadas”, disse. Ele acrescenta que o lençol freático na região é muito raso. Em alguns locais, aflora e, em outras, chega a uma extensão de mais ou menos cinco metros. Por isso, constata-se que há contaminação do subsolo. Entretanto, não se sabe exatamente quais resíduos foram depositados no local e representem perigo evidente ao solo, à água e à população. De
acordo com o técnico, as pessoas que vivem próximas ao Lixão estão
expostas aos seguintes riscos: desabamento – principalmente as casas
localizadas em frente ao aterro, uso da água subterrânea contaminada, e
contato com gases emitidos pela decomposição do lixo. “Quais gases, não
se sabe exatamente”, afirma Consoni. O
professor Alberto Pacheco, do Instituto de Geociências da Universidade de
São Paulo (ICG / USP), foi coordenador de um estudo que o Cepas (Centro
de Pesquisa de Águas Subterrâneas) realizou entre os anos de 1993 e 1994
na área. “Nós fizemos uma análise dos poços e constatamos que as águas
estavam contaminadas”, explicou Pacheco. Entretanto, em relação às áreas
subterrâneas, não houve pronunciamento porque precisariam de mais
estudos. “O
chorume cai nos córregos mais próximos, que por sua vez caem no córrego
principal até esse braço da Billings”, explica Pacheco. Mas, segundo
ele, não há como afirmar se o Lixão possui uma correspondência direta
com a contaminação da Represa: “Nós sabemos que a Billings está
contaminada por causa das atividades industriais que existem na sua bacia,
pela presença humana, onde não existe saneamento básico e o esgoto doméstico
é lançado na Billings. O Lixão, ao longo do tempo, deve ter colaborado
para a contaminação.” O
relatório a respeito dos impactos ambientais gerados constatou também
problemas sanitários que colocavam em risco os próprios moradores das
imediações. Os porcos que existem em algumas chácaras que ficam nos
arredores do Lixão eram alimentados com lixo orgânico. Segundo o Cepas,
a ingestão dessa carne mal cozida pode afetar a saúde de quem comê-la. Relatou-se
ainda que, os catadores, ao realizar em condições insalubres, estavam
expostos ao risco de doenças inerentes ao meio e a ferimentos com objetos
cortantes. Também não eram raros os casos de atropelamento por um trator
ou caminhão-caçamba. Uma
matéria publicada no Diário do Grande ABC, de 24/03/1984, relata um
desses acontecimentos: “Embrulhada em mosqueteiro e saco plástico,
despida, colocada dentro de uma caixa de papelão, apresentando
amassamento de crânio, e pernas dilaceradas; assim catadores de papéis
encontraram na quinta-feira, às 11h10, o corpo sem vida de uma criança
do sexo feminino, aparentando nove meses de idade, no aterro sanitário da
Prefeitura de São Bernardo, no bairro Alvarenga. Ontem, descobriu-se que
o maquinista, José de Oliveira, 27 anos, sem perceber, passou com sua máquina
de empurrar lixo, prefixo TI18, de 16 toneladas, com rodas de aço, em
cima do bebê”. Maria
Aparecida da Silva, que mora nos arredores do Lixão desde 1977, disse que
soube de inúmeras mortes no local. Elas costumavam acontecer quando as
pessoas pegavam carona na traseira dos caminhões de lixo. Mesmo
após estudos e constatações de perigos ambientais e sociais, ainda é
necessário analisar com mais precisão os impactos gerados pela existência
do Lixão. Enquanto não houver respostas concretas, não há como iniciar
a recuperação. “Mesmo
que esses trabalhos contenham informações importantes, elas não são
recentes. Mesmo as do IPT, que foi uma das últimas pesquisas efetuadas no
local, já estão desatualizadas”, disse Antonio Fidélis, diretor do
Departamento de Meio Ambiente e Desenvolvimento Sustentável de Diadema.
A luz “O fechamento foi uma determinação do Ministério Público, mas faz parte de uma das exigências do Estado. A primeira exigência, e mais importante, foi fechar o local. Depois tem de vir o projeto de recuperação.” A frase é de Heitor Maruno, engenheiro civil da Cetesb (Companhia de Tecnologia de Saneamento Ambiental) há 25 anos e responsável pela fiscalização na região do ABC. Mas ele acredita que a recuperação total da área é muito difícil. O local, constituído em 40 mil metros quadrados, foi aos poucos sendo tomado por lixo doméstico e industrial. Entretanto, para se iniciar a remediação efetiva da área, é preciso fazer detalhamentos específicos da deterioração ambiental. Antonio Fidélis, diretor do Departamento de Meio Ambiente e Desenvolvimento Sustentável de Diadema, esclarece que o município também considerou o fechamento a ação mais imediata em relação ao aterro clandestino. “O Lixão não é desejo de ninguém. Creio que não seja uma questão de legislação, mas de bom senso, de saúde pública, ambiental. Para nós, muito embora o fechamento esteja pautado numa ação civil pública, determinada pelo Ministério Público, nós temos consciência de que o Lixão não poderia continuar, tanto pela questão ambiental como pela social.” Após o fechamento, o Ministério espera que os municípios assinem o TCA (Termo de Ajustamento de Conduta) proposto para as prefeituras. Stela Kuba, promotora de meio ambiente de Diadema, considera importante a antecipação da recuperação por meio da assinatura do termo: “Esse acordo ainda não foi assinado. Muito bom se fosse, porque não precisaria aguardar o resultado do julgamento das apelações. Tem de ser feita a recuperação da área porque é impraticável ficar do jeito que está. É simplesmente um acúmulo de lixo, o desprendimento de gás metano, é o problema de poluição da Billings, porque ele está muito próximo da represa. Tem o problema sério da poluição que as famílias do entorno sofrem, tem animais que se alimentam da água que vem de lençóis freáticos, que têm contato de percolado. É importante que seja feita a recuperação, se possível o quanto antes. Daí a necessidade de que se fosse assinado esse termo de ajustamento.” Entretanto, segundo Sonia Lima, diretora do Departamento de Meio Ambiente de São Bernardo, os municípios ainda pretendem fazer discussões com os proprietários, Governo do Estado, Cetesb, Secretaria do Meio Ambiente e DPRM (Departamento de Pesquisas em Recursos Minerais), considerados co-responsáveis pelo funcionamento do Lixão e pela Represa Billings. Sonia acrescentou que, após o dia 16 de julho de 2001, o TCA deixou de ser o item mais importante quando se fala em remediação da área. “As prefeituras passaram a atuar. Nós não assinamos, mas estamos agindo a partir das condutas estabelecidas pelo Ministério Público. Então, o TCA, na verdade, é uma formalização de um acordo e de condutas que serão ajustadas pelo Ministério Público. A gente tem de assinar um termo com muita clareza do que vamos fazer.” Em outubro de 2001, a diretora afirmou que existia uma minuta para propor à promotoria de meio ambiente a participação dos co-responsáveis no projeto de recuperação. Haviam também contratado um engenheiro geotécnico para fazer estudos mais detalhados na área. Fidelis concorda que o Estado deve participar da recuperação. “O Lixão foi muito usado por São Bernardo e Diadema. É uma área de proteção de manancial de propriedade do Estado, ou seja, os municípios tinham que fiscalizar, mas o Estado também tinha. Quando se trata de degradação ambiental, não existe divisas nem fronteiras. O problema é regional e tem que ser tratado dessa forma.” Entretanto,
Pedro Stech, engenheiro e sanitarista da Cetesb, avaliou que a
possibilidade de Estado participar da recuperação é remota. “Existem
dados claríssimos de que foram os municípios.” Para Stech, a maior dificuldade da recuperação seria o dinheiro. Da mesma opinião compartilha Fidelis: “Talvez seja de R$ 300 mil a R$ 400 mil para fazer um projeto bem feito. Agora, realmente, implantá-lo envolve milhões. É lógico que São Bernardo e Diadema não têm estrutura para bancar um projeto com essas dimensões.” Sonia disse que o município aguardava uma verba de cinco milhões de reais doada pelo Banco Mundial. Mas esse dinheiro, que ainda não foi confirmado, seria destinado para um programa de recuperação dos mananciais do Alto Tietê – região onde se localiza a Represa Billings. Ela falou ainda que existe um recurso de 200 mil reais do Governo Federal que pode ser usado. No entanto, as prefeituras ainda não podem mexer numa área particular. Nesse ponto, aparece o que a diretora considera o que será a barreira dos municípios para iniciar a recuperação: a titularidade do local. Para se recuperar o local, é preciso definir a quem pertence a área do Lixão, pois ela foi usada durante décadas por prefeituras e empresas particulares que não tinham direito de posse. Paralelamente, os proprietários deveriam receber a área intacta, ou seja, sem nenhum vestígio de lixo. Para o ambientalista Carlos Bocuhy, conselheiro do Consema (Conselho Estadual de Meio Ambiente), a definição de quem é o responsável pela degradação da área é essencial. “Mas do jeito que está não pode ficar.” Incógnita “A primeira questão é remover as pessoas que estão habitando aqueles locais que sabidamente têm resíduos”, avaliou Ângelo Consoni, técnico do IPT (Instituto de Pesquisas Tecnológicas). Segundo ele, essa seria uma questão preventiva para fazer isolamento da área. Além disso, é preciso garantir que o terreno esteja estabilizado do ponto de vista físico. É impossível haver remoção, ou seja, levar os resíduos que lá existem para outro lugar. Assim, o problema apenas iria ser transferido. O próximo passo seria realizar a estabilização química, por meio de drenagens de gases, tratamento do chorume, ou biorremediação – colocar microorganismos no solo para acelerar a decomposição. “Você tem que fazer sistema de drenagem superficial para que a água não comece a fazer erosão do material e impedir que água limpa da chuva penetre nesse material e vá formar mais percolado”, acrescenta o técnico. Além disso, seria necessário fazer perfurações na massa de lixo formada, para que o gás seja canalizado e queimado na superfície. Para o técnico, “a recuperação de uma área é composta de uma série de ações que podem ser iniciadas desde o primeiro dia. Agora, para dizer: ‘Essa área não oferece mais risco para uma ocupação normal’, esses tempos são demorados. Claro que quanto mais tecnologia, quanto mais recursos financeiros você coloca, menor o tempo. Mas a situação brasileira não é tão fácil e a gente sabe que não será tão rápido”. Consoni disse ainda que não conhece nenhum local recuperado que tivesse sido degradado por tanto tempo. O ideal, de acordo com ele, seria transformar o Lixão em um lugar em que as pessoas não ficassem por muito tempo, como um parque. Segundo Bocuhy, “enquanto não recuperar o Lixão do Alvarenga, ele vai ser uma constante fonte de poluição.” Até julho de 2001, segundo a Cetesb, 2 milhões de toneladas de lixo em constante decomposição mantinham a vida do aterro irregular de 30 anos de existência.
Fim A primeira parte foi publicada no mes de fevereiro e pode ser vinda na sessão "Archivio" da revista.
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