Màrcia Théophilo cantora del popolo brasiliano La figlia dell'Amazzonia canta il dolore della Foresta in pericolo
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Guardandomi qualcuno proverà Ombre e luci mi dilatano
Le sillabe rimbalzano sul palato e hanno il sapore di una papaia matura, dolce, rinfrescante. Màrcia Théophilo mi pende per mano con le sue parole, mi fa strada tra la fitta vegetazione della foresta Amazzonica, apre varchi tra i giganteschi alberi che guardano dalla loro altezza maestosa le nostre goffe movenze di umani. Kupahùba, ubim, tucum, mangue, maçaranduba, jabuticabeira, embiruçu, carnauba, sono loro, gli alberi, gli abitanti della Foresta che parlano nelle poesie di Màrcia. La incontro nel suo appartamento di Roma, ci sediamo nel suo "angolino" come lei stessa lo definisce affettuosamente. Qui sono raccolti i suoi ricordi, le sue opere, i suoi premi, i libri e poi i quadri del suo compagno, il pittore Aldo Turchiaro, da dove il Boto mi guarda splendente accennando un guizzo fantasioso dalle acque del Grande Fiume. Qui è raccolta una parte importante della sua vita di poeta - donna che ha dedicato l'intera sua opera alla Foresta Amazzonica, alle sue creature, ai suoi miti. Parliamo, ripercorre la sua infanzia vissuta ai margini della foresta ascoltando i racconti orali della nonna e del padre, "narratori della selva", recita i suoi versi con il tono della voce tenue e le mani che si muovono delicate come a voler descrivere la forma dei suoni. La prima cosa che mi mostra sono due cartine geografiche del Brasile: apparentemente sono uguali, ma ciò che le distingue fa impressione. Una rappresenta il Brasile del 1500, rigoglioso e suddiviso per regioni con le relative popolazioni indigene; l'altra mostra il Brasile nel 1977, dove i nomi delle tribù indie sono scomparsi per lasciare posto a nomi freddi, tecnici, ferrigni, ovvero quelli delle grandi multinazionali mondiali che sfruttano il suolo e il sottosuolo del paese. E così non si leggono: indios Fulnios, indios Xacurus, indios Galeras, indios Sarares, indios Caingang, ma Shell, Pirelli, Fiat, Ford, Standard Oil, Occidental Petroleum, Alluminium Canadian, Montedison e così via, fino a coprire interamente il territorio brasiliano. Màrcia è figlia della Foresta, da sempre ha scritto della Foresta, e da sempre non si è limitata a guardare lo stupro che le hanno inferto, ma lo ha denunciato ponendolo all'attenzione di chi sa ascoltare.
Con un nodo alla gola
Così il poeta spagnolo Raphael Alberti proiettava l'impegno di Màrcia come cantora del popolo brasiliano. Una profonda amicizia vissuta nel comune dolore dell'esilio, questo legava Raphael e Màrcia alla quale ha dedicato poesie e disegni. "Faccio una poesia di denuncia all'interno del territorio della poesia, il paese dell'anima" - dice Màrcia - "Parlo della potenza della natura che può essere distrutta. E quando dico potenza intendo la sua grandezza, la sua molteplicità di espressione. Fino a poco tempo fa la civiltà occidentale poneva l'essere umano come padrone della natura, dandogli il diritto di manipolarla a suo piacimento. E' un sogno di onnipotenza impossibile. Va inteso che l'umanità deve cambiare il modo di vivere il proprio rapporto con la natura, capire che non è distinta da essa, ma parte di essa, parte di un insieme dove ogni creatura vivente è importante per l'altra. La cultura occidentale vede l'albero o il fiore come un semplice elemento decorativo di un paesaggio e questo impedisce di comprendere la portata di certi eventi, come ciò che sta accadendo in Brasile." Sì, perché lo scempio della foresta amazzonica in Brasile non è solo una questione brasiliana ma di tutto il mondo. "Purtroppo fino a quando si leggerà il mondo con la lente della ricchezza economica, nessuno riuscirà a comprendere l'entità del danno che l'umanità si sta infliggendo." Il Brasile è povero, l'occidente è ricco, economicamente s'intende. Màrcia ci fa riflettere: la povertà economica del Brasile è solo un punto di vista, perché il paese è ricco del bene più prezioso, l'aria, l'ossigeno che tutti noi respiriamo, mentre la ricchezza dell'occidente trascina con sé l'ignoranza di non saper riconoscere e scegliere di conquistare la vera ricchezza: il capitale o la vita? E Màrcia è sicura delle sue parole, vuole scansare ogni equivoco, vuole scoraggiare l'ecologia buonista che si cela dietro propositi aleatori. Il messaggio di Màrcia è concreto, la sua azione poetica di donna india che ricerca e documenta è concreta, reale, tangibile. Il lavoro poetico di Màrcia parte dalla memoria, dalla memoria personale, familiare, poi dalla memoria primitiva delle popolazioni indigene custodi delle tradizioni, E' un'opera di documentazione minuziosa che ha come scopo quello di restituire l'originarietà delle creature della Foresta, a partire dai nomi. Il brasiliano e l'italiano si fondono nella sua poesia, così incontriamo i Pixote, i Buruti, gli Yanoa, i Mapinguarì, Tangarà uccelli dai colori sgargianti che intonano melodie sconosciute, oppure ariranha, boicininga, boto, caititu, pindà, jibòia, irara, cururu, animali d'acqua e di terra evocatori di miti ancestrali; e poi ancora araçà, bakuri, cajà, caju, cupuaçu, maracujà, pianga, jatobà, mangana, guabiroba, frutti dai sapori decisi che vestono i bambini dei loro nomi musicali. "Nella foresta Amazzonica, i bambini hanno nomi di fiori e frutti" - mi spiega Màrcia. E cosi nel poema "I bambini giaguaro", la cantora ci presenta Urucù, Pajurà, Jupicahy, Tauarì, Ararì, Mangalô travestiti da alberi e animali che entrano nella grande metropoli. "I bambini giaguaro" è un poema raffinato, una allegoria. "La dea Giaguaro incarna le forze della natura, trasmette ai bambini la sua stessa forza per proteggerli, come una madre protegge i propri figli, riuniti a migliaia attorno alla dea-madre, devono abbandonare la foresta e iniziare l'esodo verso le grandi città, poiché l'uomo civilizzato ha invaso il loro mondo." Ma dove saranno i bambini giaguaro quando la Foresta non esisterà più? Dove sarà Taurì che "narra con la sua voce infantile,/le storie antiche della nascita del mondo:/il fuoco, il formarsi dei fiumi/degli animali il mistero/perché i pesci hanno macchie colorate/come nacquero le lingue e il canto/degli uccelli. Ride Taurì/occhi neri di grana." Dove sarà Kupahùba, l'albero dello spirito santo che cura tutti mali e la dea giaguaro, la mater protettrice di tutti i bambini? Porti, città, autostrade, linee ferroviarie, i bulldozers lavorano incessantemente ogni giorno: tra meno di vent'anni il 95% della Foresta Amazzonica sarà distrutta e con lei i suoi popoli, i suoi alberi, i suoi frutti, i suoi animali. "Il vento soffia, alberi e foglie/sono fornaci crepitanti/il fuoco è un mare indomabile/laghi e cascate esalano ardenti vapori/traversammo regioni di verde/stretti deserti, di nuovo verde/di nuovo deserto/sono gialle le acque/incendi, nuvole e fumo insieme/i bulldozers invadono, avanzano …" E l'uomo "mondiale", l'uomo che vede il Brasile una semplice meta turistica senza tener conto che l'aria che respira proviene proprio dal suo cuore, che fine farà? Potrà sopravvivere? Potrà respirare? Potrà pensare ad un futuro? Cosa insegnerà ai suoi figli, quali memorie custodirà? Riuscirà a risalire alle sue origini primitive? "Nella foresta esistono più occhi che foglie/più cuori che pietre/è la notte dell'armonia/una notte soltanto/una notte dell'anno/e non si sa quale/i cuori di tutti gli animali/ si accendono luminosi/scompaiono i corpi/e tante luci vagano nel bosco/quante le stelle nel cielo/è la notte dell'armonia/non si divorano/né si conoscono/si incontrano il giaguaro e il tapiro/il coccodrillo e il pirarucù /il tucano e l'anaconda/la farfalla e l'iguana/il falco reale e il macaco/è la notte dell'armonia/per una notte soltanto/nella foresta esistono più occhi che foglie/più cuori che pietre." Nei suoi poemi "arborei", per usare una citazione di Mario Luzi, Màrcia Théophilo fa vivere la Foresta come un luogo incantato, vero, sincero, dove le espressioni della natura, siano esse benevole o impetuose, sono se stesse e per questo rispettate e condivise. Màrcia è la voce della Foresta che intinge la penna nella tavolozza dei colori, è la portavoce di un messaggio, di una denuncia rivolta a tutti indistintamente, chiede una riflessione, una constatazione, un'azione, fermare i motori dei bulldozer, fermare l'eccidio, salvare la storia del mondo, quella delle sue creature e della sua naturale, primitiva, ancestrale poesia. E allora mi sovviene il suo racconto di una tribù india della foresta amazzonica che nel suo linguaggio ha codificato ben sedici modi diversi di descrivere il verde. "Solo nel profondo di questa foresta - scrive Màrcia nell'introduzione a I bambini giaguaro - si può coglierne così tante sfumature e significati. Distrutti gli uomini capaci di scorgere sedici modi di intendere il verde, distrutta ogni possibilità di incontro con loro, resteremo per sempre esseri umani per cui il verde è solo il verde." Una pausa. La voce ritmata dai suoni della foresta si attenua, gli occhi scuri dal taglio indio di Màrcia mi guardano in profondità: ci rendiamo entrambe conto che il tempo è trascorso, le parole si sono rincorse, le memorie sono riapparse sui rami della nostra mente, le energie si sono scambiate. Le lancette si sono mosse ma siamo ancora insieme, parliamo e così nascono nuovi incantamenti, nuove suggestioni, nuove ispirazioni poetiche, nasce una conversazione nuova, altri orizzonti, altri capitoli, tutti parte della stessa tela, ma tutti concatenati da un ordine superiore che guida le nostre vite ed è così che io e Màrcia ricominciamo il nostro viaggio nel tempo e nello spazio.
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