Erano
già ben nove i mesi di Italia e di Firenze, e l' esperienza alla
fine aveva partorito un buon rapporto con la città. Quel mitico
lavoro al bar se ne era andato, ma in compenso ora suonavo per le
strade e per locali, per cui ritenevo, oltre che di essere un
artista, anche di avere una buona padronanza dei codici della città.
Continuavo ad ostentare, nonostante gli antenati italiani, la mia
brasilianità. Come dire: io so chi siete voi, ma vi tocca sapere
chi sono io. Mi divertiva anche l’essere la prova vivente che i
brasiliani non sono tutti mulatti, belli e amanti di calcio, caldo e
carnevale, benché ciò rafforzava, con mio grande fastidio, la tesi
di chi mi definiva “di sangue italiano”. Mi divertivo, ero ben
accolto insomma, ben introdotto o, come si usa dire qui, integrato.
Fino
a quando non arriva luglio, con l’estate che ormai bussa alle
porte, e la mia storia con Firenze, come ogni amore che si rispetti,
finisce: la città, in blocco, mi abbandona. Semplicemente, va via.
Tutta. Non c’e’ più lavoro, gli amici con la mappa dei
lavoretti possibili ormai non li vedo da un po’, cosa sta
succedendo? E’ l’estate, mi dicono. Beh, allora? Finisce il
mondo? Perché scappano tutti? E' l’estate, sempre la stessa
risposta. Ferie, vacanze, la città chiude. Un po’ lo sapevo, ma
finché non lo si vede non ci si crede. Più niente e nessuno, solo
la statua di Michelangelo e i gruppi di giapponesi. Anche il padrone
di casa mi chiede se ci sarò ancora, in agosto. E dove vuoi che
vada? Intanto mi informo e raccolgo racconti, per me,
raccapriccianti.
Ne
parlano con la gioia stampata in faccia, ma per me è come se stesse
per arrivare la peste bubbonica. Quanto al tipo di lavoretti che mi
trovavo di tanto in tanto, ormai non è aria. Scopro, tra l’altro,
che tutti quelli come me erano già belli che sistemati da aprile -
maggio. A dire il vero me ne avevano anche parlato, ma non avevo
colto la dimensione del fenomeno. La proverbiale fortuna mi viene in
soccorso trovandomi una sistemazione come cameriere nel salernitano,
a San Marco di Castellabate, una cittadina vicina al mare fra
Agropoli e Palinuro, con un solo ingresso e un centinaio di anime.
Mi accontento, faccio le valigie e parto.
La
prima impressione è di essere tornato alla “normalità”. Il
mare italiano l’avevo visto solo al nord: spiagge e scogliere
bellissime con altrettante formazioni “naturali” invalicabili,
chiamati stabilimenti balneari. Fino all’assurdo di Venezia, dove
un tappeto rosso faceva da passerella dalla porta dell’albergo
fino al bagnasciuga, con un surreale cartello che avvertiva che chi
fosse entrato in acqua fuori orario (?) lo faceva a proprio rischio
e pericolo. Qui, invece, il treno mi mostra già spiagge bellissime,
un mare verde azzurro, e nessun segno di sdraio o lidi di sorta. E
sabbia! Esiste anche qui, diamine, non solo pietraia… La seconda
impressione è che l’italiano, quella famosa lingua che mi sono
dato tanto da fare per imparare, qua mi fa sentire di nuovo
straniero. Ma cosa parlano, il salernitano? Macché. Precisamente,
il sanmarcodicastellabatese.
Avevo
logicamente sentito parlare dei dialetti, ma pensavo che tra uno e
l'altro ci fosse la stessa differenza che passa fra un gaucho e un
baiano. Tutt’altro, è proprio un’altra lingua, un’altra
cadenza, un altro gergo… un’altra nazione! Una strana
sensazione, quella di dover ricominciare tutto daccapo, viene
mitigata dal fatto che gli indigeni hanno, come seconda lingua...
l’italiano. Per cui riesco se non altro a farmi capire. Il bar
dove andavo a lavorare era all’entrata del paese, e decisamente
sovradimensionato rispetto al numero di persone che vi risiedevano.
Verso le dieci di sera, però, era letteralmente preso d’assalto
da un’orda di assetati di negroni, caipirinha e notti brave. Ecco
i fiorentini, pensavo, e invece parlavano ancora un’altra cosa,
che qualcuno mi ha detto essere “napoletano”.
Allora
faccio un bel respiro e mi metto a imparare nuovamente i codici
della nuova tribù. Ad esempio, i tavoli: in questo spazio immenso
all’aria aperta dovevo sempre prestare particolare cura al
capotavola. Oltre a tener conto dell'etichetta come presentargli il
vino, disporsi accanto a lui per aspettare l’ordinazione,
portargli il conto, dovevo stare attento alla tovaglia: nel
sistemarla, doveva calare di più dalla parte del capotavola.
Operazione difficile da ottenere quando i tavoli sono tutti
rotondi... Ma ecco la soluzione dell’arcano: il capotavola è
quello che, rispetto allo spazio circostante, ha le spalle coperte e
controlla tutto l’ambiente. La tovaglia più bassa dalla sua parte
serve a fare in modo che abbia le mani coperte. Ma dai, cosa vuoi
che gliene freghi: sono tutti ragazzi, alcuni di essi si vede che
hanno appena salutato i brufoli...
E
invece, in ogni gruppetto notavo che il più brillante, o il più
rispettato, occupava proprio quel posto che gli altri non prendevano
mai. Manco a dirlo, mai visto una ragazza sedersi a capotavola.
Presto lasciai il servizio ai tavoli e mi toccò il banco, con fiumi
di caipirinha inclusi e, invece dei filosofici habitué del
mio bar fiorentino, a tutti qui era dovuta non la “solita”
caipirinha, ma “quella”, la speciale. Erano tutte identiche, ma
l’alone, per ognuna di esse doveva esserci, o non mi avrebbero
fatto più servire manco l’acqua. Anche il padrone non era di
minor casta, per cui gli sconfinamenti nel reciproco terreno non
c’erano mai. A dire il vero, era l’unico bar dove il cliente non
avesse mai ragione.
Il
lavoro al bar comprendeva vitto e alloggio, per cui di mattina si
mangiava in famiglia. Eravamo tutti, sempre, allo stesso tavolo,
parenti e lavoratori occasionali. E debbo dire che è stata la prima
volta che mi sono sentito davvero in un altro paese, con altre
tradizioni, usanze, codici. Non come a Firenze, dove la lingua era sì
diversa, ma in un mondo dove dalla bibita al dentifricio, alla
musica, tutto aveva la stessa marca e non ci si sentiva poi così
lontano da casa. Qui, invece, i codici erano altri. Tanti, e non
detti. La tavola, ad esempio. L’arrivare a tavola in ritardo, per
non dire il non arrivare affatto, era una grande mancanza di
rispetto. Cresciuto in una famiglia dove la tavola non era mai stata
un momento di aggregazione, vivevo la situazione con stupore e
deferenza. Mi sentivo in chiesa, e non sbagliavo di molto. Non si
iniziava finché non si sedevano tutti, e non al solito “buon
appetito”, ma soltanto quando il padrone di casa tagliava il pane.
I posti, a tavola, erano la rappresentazione delle gerarchie
sociali. Sedersi più vicino al capotavola significava salire nella
scala sociale. Alla destinazione si arrivava su rigorosa indicazione
del medesimo, pena l’invito, sempre elegante, di cedere il posto
per qualche ragione apparentemente banale. E rientrare all’unico
disponibile, ovvero il più lontano.
L’abbondanza
era quasi d’obbligo, e non era la solita solfa sull' “italiano
mangione”, ma qualcosa di ben più profondo. Sarà un tradizione
medievale, ma la ricchezza, da quelle parti, viene dalla quantità e
soprattutto dalla qualità del cibo. Tanto per dire, la Mercedes con
il frigo vuoto non era proprio ciò che addiceva a un ricco. La
differenza la faceva dunque non il servire tanto, che è soltanto un
primo passo, ma il cosa servire. Per cui iniziai anche a abbandonare
certe abitudini brasiliane come quella di mischiare tutte le
pietanze nello stesso piatto, e a fare molta attenzione su come e
quanto veniva mangiata ogni cosa. Dicevo della deferenza, e non
esagero. Col passare del tempo, il mangiare poco iniziava ad
apparirmi come una mancanza di rispetto. Non più al datore di
lavoro o alla famiglia ospitante, visto che ero ormai di casa, ma al
cibo stesso. Gli effetti si vedevano, eccome: quando sono arrivato
pesavo 62 chili, e dopo alcune settimane ne vantavo 74!
Un
giorno un cliente m’invita a visitare casa sua, nell’entroterra
e, alla fine, mi regala un capocollo. Per me era un salame come un
altro, per cui al ritorno non esito a portarlo con me per l’ultimo
bagno di mare prima della notte di lavoro. Sono stato quasi
crocifisso: ma come? Portare un capocollo in spiaggia? Ma lo sai che
lo regalano ai matrimoni? Mesto, e col naso nuovamente tumefatto,
torno indietro e lo metto a occupare il posto d’onore nella mia
stanza. E chi se la aspettava tanta regalità in un salame? Mistero.
Ad avvolgere tutto, poi, rimane quest’aura di altri tempi, di
culture perdute: il preparare i pomodori secchi tutti insieme, ad
esempio, coinvolgendo bimbi e anziani, e la chiusura festaiola con
la vera pizza napoletana. Che, per inciso, è peggio di quella di São
Paulo. Ma qui lo dico, e qui lo nego, considerato che l'argomento è
molto controverso...
Mi
capita di andare a una sagra, nell’entroterra, in un paesino di
cui non ricordo il nome, ma che aveva ancora meno anime di San
Marco. Si cuoce il montone, e vedo solo persone conosciute. C’e’
la musica, la tarantella, e la voglia di entrare nella roda
è grande, ma vengo fermato. Non è mica un ballo, mi dicono, e sto
ad osservare. In pratica, anche qui si ripresenta la ridefinizione
dei ruoli della comunità. Una donna guida la tarantella, e si entra
solo su suo esplicito invito. I primi a essere chiamati sono quelli
di più alto rango, o assurti a tale. Via via tutti gli altri, e chi
non viene invitato è praticamente in disgrazia. Mi dicevano che
quando le forze dell’ordine debbono arrestare qualcuno, non vanno
mica a cercarlo su per i monti, no. Aspettano la sagra. E se quel
qualcuno non viene, non sarà più rispettato dalla comunità.
Viene, e magari lo arrestano pure, ma viene. Stupefatto e deferente
quasi rasentando la sottomissione, non sono in grado di valutare
quanto sia vera o meno questa storia. Affascina, ve lo posso
garantire, e tanto al punto che mi chiedevo se anche volendo
riuscirei mai a far parte del branco.
Mi
capita anche di assistere a un funerale. La madre di un amico.
Commovente la scena di fiori lanciati sul selciato prima del
passaggio del corteo funebre. E, anche qui, sempre il cibo. Nessuno,
nella casa della signora, cucina, ma le pietanze vengono portate da
tutti quelli che vengono a portare conforto. Di alcune signore in
nero mi dicono che usano comparire in ogni funerale. Mi vengono in
mente le carpideiras, donne che vengono pagate per piangere
ai funerali. Non so da dove derivi questa usanza, in Brasile, né se
qui sia il caso di parlarvene. Ma tutte queste ritualità, le feste,
l’attenzione per il cibo, la riunione domenicale, la religiosità
nei funerali mi fanno pensare a tanti rituali identici che ho
vissuto nella mia infanzia, semplicemente come fossero esistiti da
sempre. Ecco, mi sembrava di intravvedere l’origine di tutti
questi codici. Per cui cominciava a traballare il mio concetto
stesso di brasilianità: che cos’era il mio essere brasiliano,
cosa aveva di così originale ma, soprattutto, esisteva o era
semplice retaggio di una cultura più antica, più profonda, di cui
l’italianità manteneva ancora gli aspetti più marcati?
E
proprio mentre l’italianità mi sta cadendo addosso, capito in un
paesino, sempre nella stessa zona, che ha la singolare particolarità
di aver dato i natali a Matarazzo. Il conte Matarazzo, per essere
precisi. Ovvero quel signore che negli sperduti Anni ' 20
s’imbarca per il Brasile con in tasca solo il sogno, nelle mani la
capacità di fare il sapone, diventando l’industriale più
importante della São Paulo tutta industria e operosità. Mi fa uno
strano effetto vedere questa cittadina, vicina al mare ma non
affacciata su di esso, poche case, miti e anonime come tanti
paeselli della costiera salernitana. Proprio da qui arriva l’uomo
che ha cambiato i connotati della città più grande dell’America
latina. Entro, quasi stessi entrando in un museo, in un reperto
archeologico portato alla luce solo per testimonianza della mia
storia e vedo, stupito, che le bandiere brasiliane spuntano da ogni
dove. In un bar, parlando con gli avventori, scopro che non solo il
gestore parla benissimo il portoghese, ma a São Paulo ci ha vissuto
per ben vent’anni.
Era
nel Bairro do limão, vicino a Casa verde, nella Zona nord e io
d’incanto mi sento a casa. Arrivano anche altri, chiamati dal
gestore, e d’un tratto sono insieme a una generazione di
viaggiatori, gente che ha mollato questo stesso paesello seguendo le
orme del compare più illustre, tutti poi tornati indietro una volta
accortisi di essersi imbattuti in una realtà meno fortunata. Ma
tutti con ricordi vivissimi di una São Paulo che non ho mai
conosciuto. Emigrati nell’immediato dopo guerra, sono tutti
ritornati negli Anni ' 70. Ed è quella São Paulo, la città del
boom edilizio, con cantieri ovunque, che portano nel cuore. Qualcuno
si ricorda il Bexiga, ed è quasi obbligatorio il ricordo di
Adoniran Barbosa. Surrealistica mente si inizia un samba in una
mitica e per me ormai estinta, scatola di fiammiferi, e qui
finalmente la mia schizofrenica dicotomia Brasile-Italia, queste due
identità culturali così forti e così simili, proprio qui, in me,
fanno la pace. Il samba sta benissimo con il vino, i taralli e le
fette di capocollo speziato. Posso finalmente dirmi, senza pruriti
nazionalistici, italo-brasiliano, qualsiasi cosa esso sia.
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