AVVENTURE DI UN BRASILIANO PER LO STIVALE

Scusi, dove fica il duomo?

(settima puntata)

 

di Luiz Eduardo Florian

 

 

 Capocollo in spiaggia e roda di tarantella    



   
Erano già ben nove i mesi di Italia e di Firenze, e l' esperienza alla fine aveva partorito un buon rapporto con la città. Quel mitico lavoro al bar se ne era andato, ma in compenso ora suonavo per le strade e per locali, per cui ritenevo, oltre che di essere un artista, anche di avere una buona padronanza dei codici della città. Continuavo ad ostentare, nonostante gli antenati italiani, la mia brasilianità. Come dire: io so chi siete voi, ma vi tocca sapere chi sono io. Mi divertiva anche l’essere la prova vivente che i brasiliani non sono tutti mulatti, belli e amanti di calcio, caldo e carnevale, benché ciò rafforzava, con mio grande fastidio, la tesi di chi mi definiva “di sangue italiano”. Mi divertivo, ero ben accolto insomma, ben introdotto o, come si usa dire qui, integrato. 

Fino a quando non arriva luglio, con l’estate che ormai bussa alle porte, e la mia storia con Firenze, come ogni amore che si rispetti, finisce: la città, in blocco, mi abbandona. Semplicemente, va via. Tutta. Non c’e’ più lavoro, gli amici con la mappa dei lavoretti possibili ormai non li vedo da un po’, cosa sta succedendo? E’ l’estate, mi dicono. Beh, allora? Finisce il mondo? Perché scappano tutti? E' l’estate, sempre la stessa risposta. Ferie, vacanze, la città chiude. Un po’ lo sapevo, ma finché non lo si vede non ci si crede. Più niente e nessuno, solo la statua di Michelangelo e i gruppi di giapponesi. Anche il padrone di casa mi chiede se ci sarò ancora, in agosto. E dove vuoi che vada? Intanto mi informo e raccolgo racconti, per me, raccapriccianti. 

Ne parlano con la gioia stampata in faccia, ma per me è come se stesse per arrivare la peste bubbonica. Quanto al tipo di lavoretti che mi trovavo di tanto in tanto, ormai non è aria. Scopro, tra l’altro, che tutti quelli come me erano già belli che sistemati da aprile - maggio. A dire il vero me ne avevano anche parlato, ma non avevo colto la dimensione del fenomeno. La proverbiale fortuna mi viene in soccorso trovandomi una sistemazione come cameriere nel salernitano, a San Marco di Castellabate, una cittadina vicina al mare fra Agropoli e Palinuro, con un solo ingresso e un centinaio di anime. Mi accontento, faccio le valigie e parto. 

La prima impressione è di essere tornato alla “normalità”. Il mare italiano l’avevo visto solo al nord: spiagge e scogliere bellissime con altrettante formazioni “naturali” invalicabili, chiamati stabilimenti balneari. Fino all’assurdo di Venezia, dove un tappeto rosso faceva da passerella dalla porta dell’albergo fino al bagnasciuga, con un surreale cartello che avvertiva che chi fosse entrato in acqua fuori orario (?) lo faceva a proprio rischio e pericolo. Qui, invece, il treno mi mostra già spiagge bellissime, un mare verde azzurro, e nessun segno di sdraio o lidi di sorta. E sabbia! Esiste anche qui, diamine, non solo pietraia… La seconda impressione è che l’italiano, quella famosa lingua che mi sono dato tanto da fare per imparare, qua mi fa sentire di nuovo straniero. Ma cosa parlano, il salernitano? Macché. Precisamente, il sanmarcodicastellabatese. 

Avevo logicamente sentito parlare dei dialetti, ma pensavo che tra uno e l'altro ci fosse la stessa differenza che passa fra un gaucho e un baiano. Tutt’altro, è proprio un’altra lingua, un’altra cadenza, un altro gergo… un’altra nazione! Una strana sensazione, quella di dover ricominciare tutto daccapo, viene mitigata dal fatto che gli indigeni hanno, come seconda lingua... l’italiano. Per cui riesco se non altro a farmi capire. Il bar dove andavo a lavorare era all’entrata del paese, e decisamente sovradimensionato rispetto al numero di persone che vi risiedevano. Verso le dieci di sera, però, era letteralmente preso d’assalto da un’orda di assetati di negroni, caipirinha e notti brave. Ecco i fiorentini, pensavo, e invece parlavano ancora un’altra cosa, che qualcuno mi ha detto essere “napoletano”. 

Allora faccio un bel respiro e mi metto a imparare nuovamente i codici della nuova tribù. Ad esempio, i tavoli: in questo spazio immenso all’aria aperta dovevo sempre prestare particolare cura al capotavola. Oltre a tener conto dell'etichetta come presentargli il vino, disporsi accanto a lui per aspettare l’ordinazione, portargli il conto, dovevo stare attento alla tovaglia: nel sistemarla, doveva calare di più dalla parte del capotavola. Operazione difficile da ottenere quando i tavoli sono tutti rotondi... Ma ecco la soluzione dell’arcano: il capotavola è quello che, rispetto allo spazio circostante, ha le spalle coperte e controlla tutto l’ambiente. La tovaglia più bassa dalla sua parte serve a fare in modo che abbia le mani coperte. Ma dai, cosa vuoi che gliene freghi: sono tutti ragazzi, alcuni di essi si vede che hanno appena salutato i brufoli...

E invece, in ogni gruppetto notavo che il più brillante, o il più rispettato, occupava proprio quel posto che gli altri non prendevano mai. Manco a dirlo, mai visto una ragazza sedersi a capotavola. Presto lasciai il servizio ai tavoli e mi toccò il banco, con fiumi di caipirinha inclusi e, invece dei filosofici habitué del mio bar fiorentino, a tutti qui era dovuta non la “solita” caipirinha, ma “quella”, la speciale. Erano tutte identiche, ma l’alone, per ognuna di esse doveva esserci, o non mi avrebbero fatto più servire manco l’acqua. Anche il padrone non era di minor casta, per cui gli sconfinamenti nel reciproco terreno non c’erano mai. A dire il vero, era l’unico bar dove il cliente non avesse mai ragione. 

Il lavoro al bar comprendeva vitto e alloggio, per cui di mattina si mangiava in famiglia. Eravamo tutti, sempre, allo stesso tavolo, parenti e lavoratori occasionali. E debbo dire che è stata la prima volta che mi sono sentito davvero in un altro paese, con altre tradizioni, usanze, codici. Non come a Firenze, dove la lingua era sì diversa, ma in un mondo dove dalla bibita al dentifricio, alla musica, tutto aveva la stessa marca e non ci si sentiva poi così lontano da casa. Qui, invece, i codici erano altri. Tanti, e non detti. La tavola, ad esempio. L’arrivare a tavola in ritardo, per non dire il non arrivare affatto, era una grande mancanza di rispetto. Cresciuto in una famiglia dove la tavola non era mai stata un momento di aggregazione, vivevo la situazione con stupore e deferenza. Mi sentivo in chiesa, e non sbagliavo di molto. Non si iniziava finché non si sedevano tutti, e non al solito “buon appetito”, ma soltanto quando il padrone di casa tagliava il pane. I posti, a tavola, erano la rappresentazione delle gerarchie sociali. Sedersi più vicino al capotavola significava salire nella scala sociale. Alla destinazione si arrivava su rigorosa indicazione del medesimo, pena l’invito, sempre elegante, di cedere il posto per qualche ragione apparentemente banale. E rientrare all’unico disponibile, ovvero il più lontano.

L’abbondanza era quasi d’obbligo, e non era la solita solfa sull' “italiano mangione”, ma qualcosa di ben più profondo. Sarà un tradizione medievale, ma la ricchezza, da quelle parti, viene dalla quantità e soprattutto dalla qualità del cibo. Tanto per dire, la Mercedes con il frigo vuoto non era proprio ciò che addiceva a un ricco. La differenza la faceva dunque non il servire tanto, che è soltanto un primo passo, ma il cosa servire. Per cui iniziai anche a abbandonare certe abitudini brasiliane come quella di mischiare tutte le pietanze nello stesso piatto, e a fare molta attenzione su come e quanto veniva mangiata ogni cosa. Dicevo della deferenza, e non esagero. Col passare del tempo, il mangiare poco iniziava ad apparirmi come una mancanza di rispetto. Non più al datore di lavoro o alla famiglia ospitante, visto che ero ormai di casa, ma al cibo stesso. Gli effetti si vedevano, eccome: quando sono arrivato pesavo 62 chili, e dopo alcune settimane ne vantavo 74!

Un giorno un cliente m’invita a visitare casa sua, nell’entroterra e, alla fine, mi regala un capocollo. Per me era un salame come un altro, per cui al ritorno non esito a portarlo con me per l’ultimo bagno di mare prima della notte di lavoro. Sono stato quasi crocifisso: ma come? Portare un capocollo in spiaggia? Ma lo sai che lo regalano ai matrimoni? Mesto, e col naso nuovamente tumefatto, torno indietro e lo metto a occupare il posto d’onore nella mia stanza. E chi se la aspettava tanta regalità in un salame? Mistero. Ad avvolgere tutto, poi, rimane quest’aura di altri tempi, di culture perdute: il preparare i pomodori secchi tutti insieme, ad esempio, coinvolgendo bimbi e anziani, e la chiusura festaiola con la vera pizza napoletana. Che, per inciso, è peggio di quella di São Paulo. Ma qui lo dico, e qui lo nego, considerato che l'argomento è molto controverso... 

Mi capita di andare a una sagra, nell’entroterra, in un paesino di cui non ricordo il nome, ma che aveva ancora meno anime di San Marco. Si cuoce il montone, e vedo solo persone conosciute. C’e’ la musica, la tarantella, e la voglia di entrare nella roda è grande, ma vengo fermato. Non è mica un ballo, mi dicono, e sto ad osservare. In pratica, anche qui si ripresenta la ridefinizione dei ruoli della comunità. Una donna guida la tarantella, e si entra solo su suo esplicito invito. I primi a essere chiamati sono quelli di più alto rango, o assurti a tale. Via via tutti gli altri, e chi non viene invitato è praticamente in disgrazia. Mi dicevano che quando le forze dell’ordine debbono arrestare qualcuno, non vanno mica a cercarlo su per i monti, no. Aspettano la sagra. E se quel qualcuno non viene, non sarà più rispettato dalla comunità. Viene, e magari lo arrestano pure, ma viene. Stupefatto e deferente quasi rasentando la sottomissione, non sono in grado di valutare quanto sia vera o meno questa storia. Affascina, ve lo posso garantire, e tanto al punto che mi chiedevo se anche volendo riuscirei mai a far parte del branco.

Mi capita anche di assistere a un funerale. La madre di un amico. Commovente la scena di fiori lanciati sul selciato prima del passaggio del corteo funebre. E, anche qui, sempre il cibo. Nessuno, nella casa della signora, cucina, ma le pietanze vengono portate da tutti quelli che vengono a portare conforto. Di alcune signore in nero mi dicono che usano comparire in ogni funerale. Mi vengono in mente le carpideiras, donne che vengono pagate per piangere ai funerali. Non so da dove derivi questa usanza, in Brasile, né se qui sia il caso di parlarvene. Ma tutte queste ritualità, le feste, l’attenzione per il cibo, la riunione domenicale, la religiosità nei funerali mi fanno pensare a tanti rituali identici che ho vissuto nella mia infanzia, semplicemente come fossero esistiti da sempre. Ecco, mi sembrava di intravvedere l’origine di tutti questi codici. Per cui cominciava a traballare il mio concetto stesso di brasilianità: che cos’era il mio essere brasiliano, cosa aveva di così originale ma, soprattutto, esisteva o era semplice retaggio di una cultura più antica, più profonda, di cui l’italianità manteneva ancora gli aspetti più marcati? 

E proprio mentre l’italianità mi sta cadendo addosso, capito in un paesino, sempre nella stessa zona, che ha la singolare particolarità di aver dato i natali a Matarazzo. Il conte Matarazzo, per essere precisi. Ovvero quel signore che negli sperduti Anni ' 20 s’imbarca per il Brasile con in tasca solo il sogno, nelle mani la capacità di fare il sapone, diventando l’industriale più importante della São Paulo tutta industria e operosità. Mi fa uno strano effetto vedere questa cittadina, vicina al mare ma non affacciata su di esso, poche case, miti e anonime come tanti paeselli della costiera salernitana. Proprio da qui arriva l’uomo che ha cambiato i connotati della città più grande dell’America latina. Entro, quasi stessi entrando in un museo, in un reperto archeologico portato alla luce solo per testimonianza della mia storia e vedo, stupito, che le bandiere brasiliane spuntano da ogni dove. In un bar, parlando con gli avventori, scopro che non solo il gestore parla benissimo il portoghese, ma a São Paulo ci ha vissuto per ben vent’anni. 

Era nel Bairro do limão, vicino a Casa verde, nella Zona nord e io d’incanto mi sento a casa. Arrivano anche altri, chiamati dal gestore, e d’un tratto sono insieme a una generazione di viaggiatori, gente che ha mollato questo stesso paesello seguendo le orme del compare più illustre, tutti poi tornati indietro una volta accortisi di essersi imbattuti in una realtà meno fortunata. Ma tutti con ricordi vivissimi di una São Paulo che non ho mai conosciuto. Emigrati nell’immediato dopo guerra, sono tutti ritornati negli Anni ' 70. Ed è quella São Paulo, la città del boom edilizio, con cantieri ovunque, che portano nel cuore. Qualcuno si ricorda il Bexiga, ed è quasi obbligatorio il ricordo di Adoniran Barbosa. Surrealistica mente si inizia un samba in una mitica e per me ormai estinta, scatola di fiammiferi, e qui finalmente la mia schizofrenica dicotomia Brasile-Italia, queste due identità culturali così forti e così simili, proprio qui, in me, fanno la pace. Il samba sta benissimo con il vino, i taralli e le fette di capocollo speziato. Posso finalmente dirmi, senza pruriti nazionalistici, italo-brasiliano, qualsiasi cosa esso sia.