E' giunta al termine l'avventura musicale del
più cult, irriverente e geniale dei gruppi paulisti, guidata da
André Abujamra e musibrasil.net non poteva far mancare il suo omaggio… in forma di samba.
Chi sostiene che Manu Chao sia la massima espressione del pop no-global dovrebbe assaggiare con
umiltà e rispetto i menu musicali che una misconosciuta band di San Paolo proponeva fin dall'inizio degli anni '90, mentre Manu faceva ancora la gavetta con la
patchanka un po' rustica dei Mano Negra. I Karnak - questo l'improbabile nome della band - coronavano
già da allora l'avanzatissimo sogno transgender e postmoderno del tropicalismo, estremizzandone in modo goliardico e delirante l'estetica cannibale e internazionalista. Niente
più confini tra le musiche del mondo, nemmeno quel paio di secondi standard di silenzio tra una traccia e l'altra. E molta, molta ironia
zappiana, allegria, audacia dissacratoria… Dal dicembre
passato quel silenzio si estenderà purtroppo a tutta la loro produzione,
considerato che il leader e creatore del collettivo (altamente variabile nel tempo) ha decretato la fine dell'esperienza Karnak. Il progetto si
è concluso con una serie di concerti unplugged, al termine dei quali
André Abujamra ha annunciato l'intenzione di dedicarsi a tempo pieno alla composizione di colonne sonore e, forse, al recupero del vecchio gruppo dei
Mulheres Negra, una brillante realtà underground della scena paulistana degli
Anni '80. Abujamra, genialoide multistrumentista di origini libanesi, ha mantenuto una carriera parallela nella musica per la pubblicità (suo tra l'altro uno dei
jingle di maggior successo del guaranà Antarctica) e nel mondo del cinema (con lavori pregevoli per i film "Um copo de colera" e "Bicho de sete cabecas"). Ma il progetto che gli ha dato
notorietà internazionale è stato proprio quello con i Karnak, considerati dalla critica brasiliana uno dei picchi qualitativi dello scenario post-tropicalista ed iperbolicamente elogiati dal New York Times e da tutti i
più attenti "addetti ai lavori" statunitensi ed europei. Unica nota dolente (probabilmente almeno in parte responsabile dello scioglimento),
lo scarso numero di album venduti in patria e un certo ostracismo da parte
delle radio locali.
Nemo
profeta in patria, verrebbe da pensare. E in qualche modo per i Karnak
è stato proprio così: la loro irriverente miscela di umorismo e musica polietnica, al tempo stesso urbana, sofisticata e trash, non sembra aver conquistato il cuore e le orecchie dei connazionali, sebbene avesse dalla sua un manipolo di artisti-ammiratori di grido, tra
cui Lulu Santos, Pato Fu, Paulinho Moska, Fernanda
Abreu, Mestre Ambrosio, Chico Cesar.
I Karnak nascono all'inizio degli Anni '90 da una strana illuminazione, di fronte alle Piramidi di Giza: il progetto si sviluppa per caso e per intuizione in seguito al viaggio di Abujamra in Europa e
Africa: un bizzarro viaggio che ricalca quello del pastore ne "L'Alchimista" di
Paulo Coelho e termina proprio in Egitto, dove la "Grande Opera" alchemica evolve senza particolari misticismi nel dominio della musica, grazie a un semplice
walkman su cui si accumulano canti, rumori di strada, interviste in mille lingue diverse.
La sintesi - non poteva essere altrimenti - è squisitamente brasiliana: un'esplosione coloratissima di meticciato musicale in cui convivono tranquillamente gli opposti, una solare torre di babele di linguaggi (anche inventati), ritmi ed armonie. Il tutto condito con una fortissima dose di sperimentazione e humour, spesso demenziale, che trova i suoi padri spirituali in Frank
Zappa, in Tom Zé e in Arrigo Barnabé. Nel 1995 l'allegra brigata di Abujamra irrompe nel mercato discografico con il
cd omonimo, che i critici accolgono con entusiasmo inusitato: si parla di uno dei
quindici lavori più importanti e innovativi della scena brasiliana degli ultimi trent'anni.
Hagamenon Brito, del "Correio da Bahia", definisce l'album come «il migliore global-pop mai prodotto nella terra della giungla. Così tanto swing e così tanti elementi incongrui, se fossero stati miscelati malamente, avrebbero creato solo un Frankestein pretenzioso. Ma con ingenuità, e senza registrare a Londra o Los Angeles, Abujamra ha messo nel sacco il
Diavolo».
Ecco così scorrere di fronte alle orecchie stupefatte dell'ascoltatore un calderone sonoro che fonde gioiosamente lo slang spagnolo di un marinaio gallego a un canto Hare Krishna, l'eco di "Chattanooga Choo Choo"
all'embolada nordestina, frammenti poetici lusitani allo xaxado
più scatenato, melodie nordafricane alle bandas de pifanos, opera e cori russi al
repente spontaneo dei venditori di strada brasiliani, marimba bulgare a
refrain in italiano, trascinanti forrò elettrificati allo ska e al rythm and blues, Prokofiev al rai, Pachelbel al reggae. Tutto senza soluzione di continuità.
E' vero, detta così sembra un lungo delirio senza capo né coda, una miscela entropica di tradizioni incompatibili, ma rifletteteci un attimo: una simile colonna sonora non è altro che il riflesso del nostro mondo quotidiano, un
"blob" filtrato dall'ironia e dal calore umano della tolleranza razziale e culturale. La
miscigenação dei Karnak procede per accostamenti intuitivi, per contrapposizioni, per scarti imprevisti e illuminanti, non per pianificazione intellettuale. Abujamra d'altronde è sempre stato chiaro: non si tratta di
world music nell'accezione comune del termine, ma semplicemente di «pop music senza restrizioni, senza
limiti». Il mondo è già tutt'intorno a noi, bisognerebbe chiudere occhi ed orecchi per negarlo, e la band non fa altro che aprirsi, assorbire, giocare, nuotare nel suono globale, assemblando complicate architetture sonore multitraccia con l'aiuto della tecnologia informatica.
Questa attitudine, volenti o nolenti, trova ancora resistenze nel mercato discografico, che si trincera dietro generi e aree geografiche sforzandosi di delimitare, contenere, classificare. E' vero che il
crossover è ormai regola, ma fateci caso: parte sempre dall'ibridazione di due tradizioni ben solide, in modo da giocare di sponda tra due fette di mercato senza troppi rischi. Ed è inevitabile che chi ha trasgredito nel corso dei decenni questa regola sia finito nel recinto degli
outsider, più o meno geniali, più o meno di successo. Non diversamente sono andate le cose per Abujamra e il suo collettivo: dopo "Karnak", uno strepitoso "Universo Umbigo", album per certi versi più maturo e allo stesso tempo più imperfetto, e poi un terzo lavoro, "Estamos Adorando Toquio", di nuovo accolto in modo estremamente positivo, soprattutto all'estero. E' l'ultimo, eccellente passaggio dell'avventura karnakiana. A posteriori, un testamento sonoro di grande
creatività e bizzarria.
Capolavori come "Juvenar", la
title track "Estamos Adorando Toquio" e "Maria Ines" resteranno a lungo nella memoria degli ascoltatori globali, aggiungendosi ai precedenti "Alma nao tem cor", "Comendo Uva na chuva", "O Mundo", "Boiadeiro" e "Universo
umbigo". Non resta che sperare in un futuro ricongiungimento e nel frattempo consumare i nostri lettori
cd ricreando ogni volta da zero il miracoloso equilibrio della -
sorridente - guerriglia musicale dei Karnak. Per parte mia vorrei dedicare al gruppo una translitterazione di un vecchio samba di Noel Rosa, che mi pare quanto mai calzante in occasione dell'allegro funerale, il sempreverde e delizioso "Fita Amarela", la bara gialla…
"Quando Karnak morrer/ Não quer choro nem vela
Quer uma fita amarela/ Gravada com o nome dela
Se existe alma/ Se há outra encarnação
Ele queria que a mulata sapateasse no seu caixão
Não quer flores / Nem coroa com espinho
Só quer choro de flauta, violão e cavaquinho
Esta' contente/ Consolado por saber
Que as morenas tão formosas a terra um dia vai comer
Não tem herdeiros / Não possue um só vintém
Ele viveu devendo a todos mas não pagou ninguém
Os inimigos / Que hoje falam mal do grupo
Vão dizer que nunca ouviram um conjunto tão bom assim
Quando Karnak morrer/ Não quer choro nem vela
Quer uma fita amarela/ Gravada com o nome dela..."
|