E’ difficile per me in questi giorni trattare temi diversi dalla
guerra in Iraq, da dove ogni giorno ci arrivano immagini di rovina e disperazione presentate con agghiacciante
regolarità dalle televisioni di tutto il mondo. Sicuramente però non è questa
la sede più adatta per avviare una discussione sul conflitto che stiamo testimoniando, e non
è mia intenzione farlo.
Possiamo però guardare agli eventi di queste settimane e riflettere su un altro tema, quello della globalizzazione e dei suoi costi sociali ed economici.
Come ad esempio i riflessi di questa guerra sul Brasile e in particolare in relazione un altro tema “globale”
di cui si parla spesso, la preservazione del bacino amazzonico.
La domanda fondamentale diventa: cosa succede a livello globale quando l’America decide di “liberare” un paese medio-orientale, di esportare la democrazia a bordo di mezzi cingolati e insegnare la
libertà a suon di bombe? In primo luogo ci sono le perdite umane portate dal
conflitto: si parla di migliaia di civili e centinaia di soldati. Un secondo effetto
però è la cosiddetta redistribuzione dei costi della guerra su scala planetaria, una politica che rimane prerogativa esclusiva degli Stati Uniti, unica nazione in grado di manovrare a sua discrezione le leve del potere su scala globale. I costi materiali della
guerra sono cifre impressionanti. Il costo di una singola bomba, di quelle che vediamo sganciare
quotidianamente a centinaia sulle città dell’Iraq e nell’ordine di centinaia di migliaia di dollari. La macchina bellica
americana, solo per i suoi spostamenti, brucia una quantità di risorse
superiori alla ricchezza prodotta in un anno dai paesi più poveri. Ci sarà poi anche da ricostruire un paese devastato dalla
guerra.
Viene naturale chiedersi, al di là degli appelli di Bush ai cittadini americani di contribuire volontariamente per supportare lo sforzo bellico: chi
pagherà davvero per tutto questo? La risposta non è cosi immediata, e va ricercata nelle dinamiche globali attraverso cui l’America riproduce il suo predominio sull’intero pianeta.
Si tratta di dinamiche complesse e di natura diversa. Tra queste, una di quelle che il Brasile conosce bene
(e in assoluto una delle più efficaci) è quella del debito estero dei paesi in via di sviluppo.
Non viene ricordato abbastanza spesso quanto il peso del debito estero riduca
enormemente le possibilità di molti paesi di lottare per il proprio sviluppo e contro la
povertà. Ancora più di rado viene ricordato come siano state le banche commerciali dei paesi ricchi a prestare denaro (a tassi di interesse variabili!) nel momento peggiore della crisi economica seguita agli shock petroliferi.
In quegli anni di crisi le imprese americane ed europee non investivano e
perciò non chiedevano prestiti alle banche. Un nuovo mercato da sfruttare per le banche diventava allora quello dei paesi del
Terzo mondo su cui si cominciò a riversare tutto il credito in eccesso. Finita la crisi, le politiche monetarie dei governi americani ed europei hanno provocato una salita dei tassi di
interesse a livelli che hanno reso la restituzione degli interessi sul debito una delle principali voci di spesa nei conti pubblici di molti paesi in via di sviluppo.
Come altri, anche il Brasile è stato una delle valvole di sfogo della crisi economica degli
Anni '70, per poi diventare un debitore insolvente negli anni a seguire quando l’economia Americana
è ritornata a crescere. L’ingiustizia di questi meccanismi è evidente e diventa ancora
più odiosa quando si sentono le grandi istituzioni finanziarie mondiali (a partire dal Fondo
monetario internazionale) dettare le regole di gestione delle loro economie a paesi
più vulnerabili, minacciando la sospensione degli aiuti.
Il Brasile, si sa, ha bisogno di prestiti dalla comunità internazionale (in parte anche per ripagare il suo debito; un circolo vizioso il cui costo
è scaricato ancora una volta sulle fasce più povere della popolazione). Per ottenerli deve dimostrare di seguire politiche imposte di taglio alla spesa pubblica. Questo vuole dire meno scuole, meno ospedali e un ambiente che degrada. In molti oggi parlano di cancellare il debito, ma gli Stati Uniti non vogliono saperne.
Perché perdere uno strumento di controllo così efficace? Con la guerra in corso in Iraq l’America ha bisogno di spremere tutte le sue sorgenti di ricchezza, inclusi
i suoi crediti con i paesi che dichiara di voler aiutare. Questo vorrà anche dire condizioni sempre
più restrittive per nuovi prestiti, riduzione degli aiuti internazionali per lo sviluppo e
il protezionismo (tra le politiche predicate dall’America c’e’ anche quella della liberalizzazione dei commerci internazionali; peccato che gli
Usa siano i primi a tassare le importazioni di moltissimi prodotti tropicali…).
Sul Brasile, però, pesano responsabilità enormi a livello globale, tra cui ad esempio il costo di impedire la distruzione della foresta del bacino amazzonico. Da
lì proviene gran parte dell’ossigeno che respiriamo in ogni angolo del pianeta.
Eppure i governi dei paesi ricchi (che a ogni occasione tingono di verde i
loro programmi politici dichiarandosi difensori dell’ambiente) non
condividono le spese di preservazione di questo patrimonio dell’umanità. Spese che servono a contrastare lo sfruttamento selvaggio delle foreste, l’erosione dei terreni marginali ed altre
attività tipiche delle popolazioni rurali più povere.
Ma se il Brasile spende parte delle sue risorse (e una parte significativa) per ripagare un debito fuori controllo per le politiche di stabilizzazione a livello mondiale e deve seguire la ricetta del
Fmi per tenere i conti pubblici in equilibrio, di soldi davvero ne rimangono pochi.
Domani l’America, che tanto ha speso in nome di una guerra di liberazione,
richiederà la restituzione dei debiti (vecchi, nuovi e futuri, visto che il meccanismo non accenna a fermarsi) con ancora
più insistenza. Di cancellazione del debito probabilmente si sentirà parlare sempre meno in futuro.
Mentre le truppe Usa entrano a Baghdad penso a come, con le armi della guerra, della pressione politica ed economica l’America riesce a mantenere il controllo sui popoli di tutto il pianeta e decidere delle loro vite. Questo non
è solo ingiusto, ma è anche pericoloso. E in questi giorni ne vediamo gli effetti devastanti su quello che l’America ha
già annunciato essere solo il primo (il secondo includendo l’Afghanistan dei talebani) capitolo di una offensiva contro una lunga lista di nemici. I costi di questa impresa, ancora una volta, verranno presentati alla fine, in una forma o l’altra, ai
più poveri di questa terra.
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