Recensioni CD & Cronache concerti |
Diamantes
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Marcha sobre a cidade
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Natural
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Bossa Tropical |
Managarroba
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SOCD 036 *** Torniamo indietro negli anni, precisamente al 1996, per riscoprire questo bel disco di Giselle Martine. In questo progetto Giselle mostra di far parte della discendenza di quella infinita tradizione di cantoras brasiliane, che hanno una propensione per la ballata intrisa di sentimento e passione, e che più di altri generi mostra la propria originaria relazione con il fado. Per la registrazione di questo disco la nostra si è circondata di strumentisti di prim’ordine, come Luiz Claudio Ramos, Jota Moraes, Gilson Peranzzetta, Adriano Giffoni e la mia segreta passione, Wilson Das Neves, il batterista più swingante di tutta la Terra Brasilis. La linea stilistica di cui sopra viene a volte felicemente infranta, come in “Usucapião” (#3), che possiede un felice incedere di baião, oltre a un testo molto divertente. Degno di nota anche il duetto con Chico Buarque, nel brano “Linda Flor” (#4), già noto ai più per un eguale trattamento a due reso da João Gilberto e Maria Bethania nel disco “O canto do Pajé”. Chico Buarque è anche l’autore della versione portoghese di “Supõe” (#5), originariamente del cubano Silvio Rodriguez. Una delle piccole gemme del disco è una versione molto nervosa e sincopata di “Com a perna no mundo” (#9) di Gonzaguinha, in cui l’approccio flautato di Giselle stempera elegantemente l’originaria tensione “sociale” del pezzo. Un’altra citazione di Gonzaguinha chiude il disco, trenta secondi di “O que è o que è”. Un disco sicuramente non fondamentale, ma altrettanto certamente molto piacevole.
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Grupo
Um - "Marcha sobre a cidade" **** Originariamente registrato nel 1979, questo disco è stato ristampato con inediti l’anno scorso. I Grupo Um erano Lelo Nazario- piano elettrico, Zeca Assumpção – basso elettrico e pianoforte, Zé Eduardo Nazario – batteria e percussioni, e Carlinhos Gonçalves – percussioni. Nomi evidentemente noti nell’ambito della musica brasiliana più vicina al jazz, e questo disco ce li mostra in piena infatuazione jazz-fusion. Infatti vi sono elementi che fanno immediatamente pensare ai Weather Report, o a certe cose degli Art Ensemble of Chicago, così come ad alcune pagine del Canterbury Rock, come Hatfield and the North, o i Soft Machine di Robert Wyatt, ma contiene anche aspetti più originali che, pur senza indulgere nella tradizione tipicamente brasiliana, pescano direttamente i propri riferimenti nella tradizione folklorica più direttamente africana, come ad esempio nel brano “Sangue de Negro” (#2), o nella bonus track “N’Daê”, con la parte finale tutta giocata sul dialogo tra flauto e berimbau (#7). Sicuramente un disco non facile, benché con alcuni momenti veramente lirici, però sempre di grande libertà stilistica e creativa, suonato per di più da eccellenti musicisti.
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Celso
Fonseca - "Natural" ***** Se qualcuno pensasse che la bossa nova non ha più niente da dire, dovrebbe sentirsi un po’ della produzione di Celso Fonseca, sia da solo che in coppia con Ronaldo Bastos, con cui ha già inciso tre dischi. Celso fonseca, che si è fatto conoscere per la pluridecennale collaborazione, in studio e in tour, con Gilberto Gil, è artefice, in questi ultimi anni, delle più raffinate variazioni e esercizi di stile su questo linguaggio espressivo. Il precedente disco in coppia con Ronaldo Bastos (Juventude – Slow Motion Bossa Nova), recensito qualche numero fa, conteneva alcune piccole gemme, come la versione con testo portoghese di Que reste-t-il de nos amours, o un geniale medley tra “La più bella del mondo” di Marino Marini e “A Voz Do Morro” del nostro Ze Ketti. Non è da meno questo nuovo lavoro, con versioni d’alta classe di pezzi di storia come “Ela è carioca”, (#8) in duo con Cibelle, già nota per la sua collaborazione con Suba, o il samba ridotto all’osso di “A origem da felicidade”, che ricorda, nello spirito, “Desde que o samba è samba” di Caetano Veloso. Personalmente, uno dei vertici è “Febre”, che si apre con l’introduzione al flicorno di Jessé Sadock. Eccellente anche “Teu sorriso”, che si apre – e si chiude - con il berimbau, e poi si dirige sicuro verso terreni già sfiorati da Arto Lindsay e Vinicius Cantuaria, come una vera bossa nova del terzo millennio. Ma è difficile trovare una caduta di tono in questo disco, raffinatissimo, elegante, suadente, intossicante, confidenziale, lirico. In una parola, un massaggio per l’anima nel logorio della vita moderna, come nella vecchia pubblicità del Cynar.
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Gal Costa -
"Bossa Tropical" *** Difficile dire cosa sia esattamente che provoca il fallimento degli ultimi album di Gal Costa, da qualche anno a questa parte. Le aspettative alte, forse. Oppure una indubbia perdita di originalità nella scelta del repertorio e negli arrangiamenti. Certamente la scelta di difendere la proprie posizione di icona sacra del pop brasiliano evitando i rischi, le scommesse, il mettersi in gioco come a inizio carriera. E’ il caso anche di questo “Bossa Tropical”, in cui Gal si trincera dietro la solita ricetta eclettica di mescolare vecchi classici (“O Amor em Paz”, “The Fool on the Hill”), vecchio rock (“Mulher” di Marina Lima), nuovo rock (“Socorro” di Antunes), umori bahiani (“Cada Macaco no seu Galho”) e strizzate d’occhio agli standard americani (“As Time goes by”). Apparentemente non ci sono grossi salti rispetto alla politica tropicalista ortodossa e forse il punto è proprio questo: al mutare del contesto, all’evolvere della tecnica e della sensibilità di pubblico e compagni musicisti, questo eccesso di staticità uccide arte e fantasia. Non ha senso riproporre ora il cocktail di sempre: suona stonato, datato, conservatore. E purtuttavia qualche cambiamento, l’impietosa patina degli anni, si avverte. La voce di Gal, più matura e controllata, si è però come inacidita, inspessita, ha perso quella sua incantatoria dolcezza e trasparenza cristallina. Triste doverlo constatare. Detto questo, il lettore può avere avuto l’impressione che “Bossa Tropical” sia un album brutto, da evitare. Non è così. Si tratta solo di un album che non aggiunge nulla, un pochino sottrae, ma resta in buona sostanza piacevole e ascoltabile, a patto di non richiamare alla memoria i capolavori degli Anni ’60 e ’70 e qualche perla episodica dei decenni successivi. Un album come potrebbero produrlo molte altre cantanti attuali del panorama brasiliano, ed è forse questo che rimane difficile da perdonare. “Mulher”, “Cada Macaco no seu Galho” e “Epitafio” di Chico Cesar sono gli episodi più felici e tentano come possono di riscattare l’alone di sottile opacità che aleggia su tutte le track.
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Joao Donato -
"Managarroba" Da magnifico maestro settantenne Joao Donato continua il suo percorso musicale con invidiabile serenità e voglia di fare. Il nuovo millennio lo vede ancora protagonista, folgorato da una seconda giovinezza ben testimoniata dalla cadenza annuale dei suoi nuovi lavori e dalle collaborazioni (talvolta ardite) con la nuova guardia della Mpb. “Managarroba” è un perfetto showcase di questa fase di rinnovamento, con le sue luci, le sue ombre e, per fortuna, il solito pianismo di immensa eleganza dell’artista. La parola d’ordine è “leggerezza scevra di banalità”. Ascoltatelo in “Falta de Ar”, in duetto con Joyce in “E vamos la’” e di nuovo in splendida solitudine in “Luz de Bolero”: capirete cosa intendo. Anche l’interazione con Marisa Monte è eccelsa, una delle vette dell’album. Il discreto uso dell’elettronica nel loro “Nunca Mais” è esemplare e l’effetto globale struggente come solo una melodia cantata da Marisa e punteggiata dal riconoscibilissimo piano di Donato può esserlo. A qualche brano di distanza la parceria con João Bosco conferma d’altronde che la classe non è acqua e che la penna del maestro è ancora in grado di sfoderare classici senza tempo, di ammaliare, di penetrare con sottigliezza nell’ascoltatore. Le ombre: ci sono purtroppo. La smania di emanciparsi, rinnovarsi e osare gioca a João Donato un paio di brutti scherzi. Il primo è la collaborazione col rapper Marcelo D2, che lascia perplessi. Come mischiare il diavolo con l’acqua santa. Il secondo è il brutto scivolone finale, quella “Managarroba” che dà titolo all’intero album. Uno sgradevole ammiccare al pop-rock inutilmente spagnoleggiante e compositivamente mediocre, che stride con tutto quel che precede. Ma sono inciampi che si possono ben perdonare a un Joao Donato…
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Cronache concerti
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Modena Music Center, 12 marzo 2003 Anzitutto togliamoci subito il pensiero: se il cognome di questa cantante vi dice qualcosa, è perché effettivamente lei è la nipote di Vinicius De Moraes, il Poeta per antonomasia, il Negro più Bianco del Brasile, come lui stesso ebbe a definirsi. Nonostante che apparentemente sia molto giovane (e piuttosto carina, anche se questo esula da considerazioni propriamente artistiche), Mariana ha una vera passione, e un grandissimo rispetto, per i tempi eroici della MPB, quando ancora non si chiamava così, e per i suoi autori, che come in nessun altro luogo del mondo trovarono un equilibrio così perfetto tra grandi testi e melodie indimenticabili. Del resto, Mariana deve aver assimilato la quintessenza della musica popolare brasiliana assieme al latte materno. La scaletta del concerto, di conseguenza, è uno scrigno spalancato ripieno di tesori. Si inizia con Imitação da Vida, di Batatinha, per proseguire con Ze Ketti e “A voz do morro”, doppiato da “Odete”, di Dunga e Herivelto Martins: a proposito di quest’ultimo pezzo, è stato cantato per la prima volta a Mariana direttamente da João Gilberto: essere la nipote di Vinicius ha le sue prerogative! La scaletta poi continua con Curare, di Bororo, nota ai più per una soffusa versione di Rosa Passos, Nua Ideia (J. Donato – C. Veloso), la doppietta di Jobim “Vivo sonhando” e “Fotografia”, una versione rarefatta di Juazeiro di L. Gonzaga, seguita da un baião originale composto dall’ottimo chitarrista del gruppo, Sidney Rodrigues, e poi una coppia di brani di cui l’augusto nonno scrisse i testi: “Vocé e eu” e “A felicidade”. Dulcis in fundo, “Eu quero um samba” di Haroldo Barbosa/Geraldo Jaques, e un pezzo di Henri Salvador, con cui ha suonato spesso il batterista del gruppo, Silvano Michelino. Dal canto suo, Mariana tiene il palco di questo raffinato e accogliente Jazz Club con irresistibile simpatia e comunicativa, e interpreta queste gemme della musica popolare del ‘900 con tutta la passione e l’onestà immaginabile, per una serata (due in realtà, perché l’abbiamo vista anche a Bologna, la sera prima), che ci riconcilia con la nostra vita quotidiana: eterno effetto della migliore musica popolare.
Quarteto Jobim
/ Morelenbaum
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