CONVERSA NO QUINTALIl Pau Brasil e la scoperta del Tucupì
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La
“scoperta” del Brasile risale al 1500, ma è dall'inizio dell'anno
successivo - con la penetrazione dei portoghesi per fini esplorativi e
ricerca di spezie - che diventa più
frequente il contatto con le popolazioni della Terra di Vera Cruz
(nome dato al territorio scoperto da Cabral). A quel tempo, nella fascia
della Mata Atlantica (foresta
litoranea), dicono alcuni studiosi, vivevano circa 5 milioni di amerindi.
Il contatto di questi ultimi con gli europei, da una prima fase
"amichevole", col passare degli anni e con il susseguirsi delle
spedizioni esplorative, evolse in persecuzione tendente a ridurre in
schiavitù la popolazione indigena. Nel
frattempo, i rappresentanti del popolo cosiddetto "civilizzato",
pur non essendo
riusciti a reperire nel territorio le agognate spezie,
avevano trovato fonti di reddito nell'abbattimento di un albero chiamato pau-brasil
(e da cui nasce il nome che verrà dato dagli europei alla regione),
il cui legno rosso produceva un colorante molto pregiato utilizzato dalle
tintorie europee per tingere i tessuti dei vestiti di re e cardinali. La
Caesalpinia Echinata, trovata
in Brasile, non era così
efficiente quanto quella orientale (Caesalpina
Sappan), però la sua scoperta fu salutata con entusiasmo poiché dal
1943, quando i turchi avevano preso Costantinopoli, le rotte verso
l’oriente erano state interdette, cosa che rese molto difficile
l’arrivo del prodotto in Europa. Quel legno colorante oriundo dalla
Sumatra era diventato raro e carissimo, pertanto commercializzare quello
trovato nelle nuove terre era più che conveniente. In
Brasile, l'arabutã,
come veniva chiamato l’albero dagli indigeni, cresceva quasi
esclusivamente in mezzo alla Mata
Atlantica, tra le zone che poi sarebbero diventate
il Rio Grande do Norte e Rio de Janeiro. Il suo legno – ibirapitanga
– , rosso e duro, era già usato dagli indios
per fare gli archi e tingere le piume bianche. La lettera di Amerigo Vespucci - partecipante alla prima spedizione (1501) indetta per esplorare il litorale del territorio scoperto da Cabral nel 1500 - diceva che in quelle zone “non si trova niente di valido, all’infuori di un’infinità di alberi da tintoria…”. Il risultato ottenuto fu, inizialmente, il poco interesse da parte delle istituzioni portoghesi per la colonia. La stessa cosa, tuttavia, non accadde con i singoli imprenditori interessati al commercio del pau-brasil. La Corona portoghese, non possedendo abbastanza risorse finanziarie e umane per colonizzare o difendere i propri nuovi possedimenti, decise di affidare a terzi questa incombenza. Così, nel secondo semestre del 1502, Dom Manuel, re del Portogallo, concesse a Fenando de Noronha l’esclusività del commercio del pau-brasil - che comprendeva anche la schiavizzazione degli indigeni -, a condizione che versasse alla Corona un quarto del valore della merce. Tale
concessione, si poteva immaginare, fu totalmente ignorata dai
contrabbandieri francesi, che continuarono tranquillamente ad abbattere
gli alberi con l’aiuto degli indios Tabajara, Tupiniquim e
Tupinambá. A questi ultimi, inizialmente, era indifferente che
portoghesi e francesi fossero nemici e si disputassero il commercio del
pau-brasil:
il loro interesse era rivolto alle chincaglierie e suppellettili (ad
esempio specchi, coltelli, scuri) che gli europei offrivano in cambio
della loro disponibilità. Nessuno faceva caso alla rivoluzione che si
stava compiendo: da un momento all’altro, le tribù Tupí del litorale
delle nuove terre scoperte, sarebbero uscite dall’Età della Pietra per
entrare in quella del Ferro. Le
alleanze tra stranieri e indigeni ebbero inizio dopo che i nativi
cominciarono a distinguere chiaramente i perós
– come venivano chiamati i bruni portoghesi – ed i mair,
nome dato ai biondi francesi arrivati principalmente dalla Normandia o
dalla Bretagna. I contrabbandieri francesi stabilirono con gli indigeni
una specie di mutua complicità. Alcuni di loro si identificarono talmente
con le peculiarità della vita selvaggia che adottarono perfino le
abitudini dei nativi. Questo non accadde con i portoghesi che,
diversamente dai francesi, avevano anche intenzione di catturarli al fine
di portarli come schiavi in Portogallo. Con
l'inizio dei trasferimenti forzati delle tribù, le donne, che erano
responsabili della preparazione e della buona conservazione degli
alimenti, cominciarono a cercare nuovi modi di mantenere per più tempo le
pietanze. Inizia da allora la ricerca di cabaças (zucche da
fiaschi) più grandi per stivare e trasportare le riserve alimentari. Per
assicurare le scorte da trasportare con questo nuovo sistema, quindi, le
donne cominciarono a preparare quantità maggiori del fabbisogno
giornaliero della tribù di quegli alimenti che si potevano conservare per
più giorni.
Le
prede di caccia e di pesca moqueada (essiccata al sole senza sale
poiché gli indigeni non lo conoscevano ancora), la farina di manioca, di
tapioca, il tucupì
(acido cianidrico), il jambù
(erbaceo astringente) venivano preparati dai nativi prima di mettersi
in... fila indiana alla ricerca di nuove aree per l’insediamento,
provvisorio, della tribù. Il
tucupì (succo della radice di manioca amara, grattugiata), essendo
velenoso, veniva esposto al sole per tre o quattro giorni per poterlo
rendere innocuo; dopodiché veniva usato per cuocere la cacciagione o il
pesce. La carne moqueada, una volta cotta nel tucupì,
poteva essere conservata per otto giorni. La cacciagione veniva invece
cotta per otto giorni consecutivi, insieme alle foglie triturate della
manioca (maniva), riuscendo così a mantenersi per ben quindici
giorni. A
proposito del tucupí,
base di molti piatti tradizionali dell'Amazzonia, gli indios hanno una
suggestiva leggenda che ne racconta la nascita. Si narra infatti che: "Dall'alto
dell'ibacapuranga (bel cielo), due amiche guardavano spesso la
terra con curiosità. Jacy
(la luna), con il suo viso tondo e liscio e Iassytatassù
(la stella del mattino) piccola e luminosa, si domandavano come poteva
essere da vicino quel pallone quasi rotondo che avevano sempre davanti
agli occhi.
Un
giorno le due amiche
decisero di far visita all'ibiapité (centro della terra). Di
mattina presto lasciarono l'ibacapuranga e scesero sulla terra.
Passeggiarono di qua e di là fra le piante, gli animali ed i corsi
d'acqua. Guardavano tutto con curiosità. Il sole era già alto nel cielo
quando, stanche, decisero di riposarsi sull'enorme disco della iupe-jaçana
(vitória-régia), prima di incamminarsi verso l'ibiapité. Tutta
la foresta era tesa. Gli uccellini e le farfalle svolazzavano attorno a
quelle due figure sdraiate sull'iupe-jaçana. I coccodrilli
guardavano da lontano; le scimmie saltavano fra alberi e liane; la
“preguiça” (bradipo), più ferma che mai, con la testa penzolante,
attendeva. Ragni, serpenti, piragnas, tutti, in verità, erano lì a
guardare quelle cose luminose. Una
volta riposate, Jacy e Iassytatassù si
prepararono per scendere l'ibibira (abisso). Gli animali della
foresta, spaventati, si mossero tutti insieme e una caninana
(serpente non velenoso), appesa ad un ramo, nella confusione, si scontrò
con il bianco viso di Jacy e la
morse. Il dolore fu intenso. Non sapendo cosa fare, Jacy
si mise a piangere disperatamente; le sue amare lacrime si sparsero su una
estesa piantagione di manioca. Poiché
il dolore non passava, le due amiche decisero di interrompere la visita e
di far ritorno all'ibacapuranga. Dalle lacrime di Jacy sorse e
rimase come ricordo sulla terra, il tucupí
(acido cianidrico), che sarebbe poi diventato uno degli alimenti
fondamentali delle tribù amazzoniche.
Nota: In alcune tribù, la luna è rappresentata da un ragazzo, in altre, da una ragazza. Fonti: rivista “Nosso Pará” n° 07/2000; "Enciclopedia da Amazônia", di Carlos Rocque; “Naufragos, traficantes e degredados” di Eduardo Bueno – Editora Objetiva - 1998
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O Pau - Brasil e o nascimento do Tucupì
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Oficialmente,
o Brasil foi “descoberto” em 1500, porém é a partir de 1501 - com a
penetração dos portugueses com fins explorativos e, principalmente, de
procurar especiarias – que o contacto com os nativos da Terra de Vera
Cruz (nome dado a terra descoberta) aumenta consideravelmente e toma
diferentes aspectos. Naquela
época, na faixa litoranea da Mata Atlantica, segundo alguns estudiosos,
viviam cerca de cinco milhões de Amerindios. O encontro com os europeus,
inicialmente muito amigavel, com o passar dos anos e com a chegada,
constantemente, de expedições exploradoras, transformou-se em perseguição
com o fim de escraviza-los. No
meio tempo, o povo “civilizado”, não encontrando as famosas
especiarias, descobriu uma nova fonte de renda com a arvore chamada
“pau-brasil” cuja madeira produzia um corante natural de tom carmesim
ou purpura, usado na Europa para tingir os tecidos que iriam servir para
fazer as roupas de reis e autoridades eclesiasticas. A
Caesalpina
Echinata, encontrada no Brasil
não era tão eficiente quanto a similar oriental (Caesalpina
Sappan), porém a sua descoberta foi saudada com entusiasmo pois,
desde a tomada de Constantinopla pelos turcos em 1493, as rotas comerciais
com o Oriente estavam bloqueadas, o que dificultava a chegada do produto
na Europa. O “pau de tinta” che chegava da Sumatra tornou-se raro e
carissimo, portanto, comerciar aquele encontrado nas terras descobertas
por Cabral, era convenientissimo. No
Brasil, o Arabutã,
nome indígena da árvore, crescia quase que exclusivamente entre o Rio
Grande do Norte e o Rio de Janeiro, na planicie costeira, em meio à
exuberância da Mata Atlantica. A sua madeira –Ibirapitanga-
vermelha e dura, era usada há séculos pelos indios para fazer
arcos e sua tinta para tingir de vermelho as penas brancas, mas não
somente. A
carta escrita por Americo Vespucci – membro da expedição que em 1501
explorou o litoral do territorio que Cabral tinha descoberto – dizia que
“nessa costa não vimos coisa de proveito, exceto uma infinidade de árvore
de tinta…”. O resultado obtido foi, inicialmente, o desinteresse da
Coroa Portuguesa pela colonia. O mesmo não aconteceu, porém, com os
ricos mercantes lusitanos, interessados no comércio do “pau-brasil”.
Como a Coroa não possuia bastante recursos financeiros nem humanos para
colonizar e defender suas novas terras, o rei resolveu arrendar a exploração
das terras encontradas na margem oposta do Atlântico. Assim, no segundo
semestre de 1502, D. Manoel, rei de Portugal, concedeu a Fernando de
Noronha a exclusividade do comércio do pau-brasil – que compreendia
também a possibilidade de escravidão do índio – com a condição de
doar a Coroa um quarto do valor das mercadorias. Tal concessão foi totalmente ignorada pelos contrbandistas franceses que continuaram, tranquilamente, a derrubar as árvores de pau-brasil com a ajuda dos indios Tabajara, Tupinambá e Tupiniquim. A esses índios, inicialmente, era indiferente que portugueses e franceses fossem inimigos e disputassem entre si o comércio do pau-brasil. O principal interesse deles eram as quinquilharias baratas (espelhos, anzois, facas, miçangas, etc) que os europeus lhes ofereciam em troca de trabalho. Ninguém notava que uma revolução estava acontecendo: de um momento para outro, as tribos tupi do litoral brasileiro saiam da Idade da Pedra e ingressavam na Idade do Ferro. As
alianças entre estrangeiros e indigenas iniciaram depois que os nativos
começaram a distinguir os “perós” –como eram chamados os morenos portugueses – dos “mair”,
apelido dado aos louros franceses vindos, a maior parte deles, da
Normandia ou da Bretanha. Muitos contrabandistas franceses estabeleceram
uma ligação de mútua cumplicidade com os indios; alguns deles se
identificaram tanto com as peculiaridades da vida selvagem que acabaram
adotando os costumes dos nativos. A mesma coisa não acontecia com os
portugueses que, diversamente dos franceses, estavam interessados em
capturar os indios e leva-los, escravos, para Portugal. Para fugir da escravidão e da alternativa de massacre, as populações locais começaram a transformar-se de semi-nomades em nomades, tentando assim de salvar-se deste tipo de “colonização”. Foi porisso que Tamoio, Carijó, Aymoré, Goitaca e outros começaram a perambular pela imensa floresta então existente, afastando-se do litoral. Os últimos bolsões dos amerindios foi o sul da Bahia que iniciaram a grande marcha para o vale amazônico na metade do seculoXVI. Com
o início dessas andanças forçadas, as indias que eram responsaveis pela
preparação e boa conservação dos alimentos, começaram a procurar
novos meios para transportar e manter as comidas por mais tempo. Uma
pratica que elas haviam descoberto muito antes foi reavaliada:
serviriam-se de cabaças enormes para armazenar e facilitar o transporte
das reservas alimentares. Preparavam assim maiores quantidades daquelas
comidas que podiam ser conservadas por mais tempo, antes de sair à
procura de uma nova área para instalar-se…provisoriamente. A
carne da anta, moqueada, assim como o peixe, a farinha de mandioca, a
tapioca, o tucupí,
o jambú, etc. eram preparados com antecedência. O tucupí,
sumo extraido da mandioca, é acido cianidrico, todavia as indias
descobriram que podiam vencer esse veneno deixando-o exposto ao sol por
tres ou quatro dias; depois de ‘descansado’ era fervido, ficando
pronto para o consumo humano. A carne moqueada, cozida no tucupí,
podia ser conservada por oito dias. A carne proveniente da caça, em vez,
era cozida por oito dias consecutivos junto com a folha triturada da
mandioca (maniva) durando quinze dias. Com
a chegada dos europeus tem início, também, o processo de hibridação da
alimentação indígena. Com a introdução do sal, da farinha de trigo,
da cana de açucar, pouco a pouco alguns usos alimentares começaram a
mudar, mas não desapareceram. De todo modo, a base desta tradição
alimentar deu origem aos pratos tipicos da Amazônia brasileira: o
pato no tucupí
e a maniçoba
são dois exemplos. Só sucessivamente nasce o tacacá (bebida ou
comida?), um alimento exótico que une elementos de importação à uma
base tradicional. A
proposito do tucupí, base de
muitos pratos tradicionais da Amazônia, os índios tem uma lenda
sugestiva para contar o seu “nascimento”. Contam que: “Do
alto do Ibacapuranga (céu
bonito), duas amigas admiravam, dia e noite, com muita curiosidade, aquela
bola quase redonda que estava la embaixo. Jacy
(a lua), com seu rosto redondo e liso e Iassytatassú
(a estrêla d’alva), pequena e luminosa, se interrogavam como podia ser
de perto aquele objeto que
estava ali, sempre defronte
delas. Um
dia Jacy e Iassytatassú
combinaram fazer uma visita ao Ibiapité (centro da terra). Em uma
madrugada deixaram o Ibacapuranga e
desceram para terra. Começaram passeando de um lado para outro, entre
plantas, animais, lagos e igarapés. Olhavam tudo com muita curiosidade
pois era tudo uma novidade só. O
sol ja estava alto quando, cansadas, decidiram descansar no enorme dirsco
da Iupé-jaçanã (vitoria-régia) antes de pegar o caminho para o centro
da terra., o Ibiapité. A floresta inteira curiosava; os passarinhos e as borboletas voavam ao redor daquelas duas figuras deitadas na Iupe-jaçana. Os jacarés olhavam de longe; os macacos, em vez, pulavam de galho em galho, de uma arvore para outra; as preguiças, agarradas nos troncos com a cabeça pendente, esperavam. Aranhas, cobras, piranhas, todos na verdade, estavam ali, olhando aquelas coisas luminosas. Depois
do repouso, Jacy e Iassytatassú se
preparam para descer o Ibibira (abismo):
os animais da floresta, levaram um susto e começaram a andar, voar, nadar,
todos juntos e, na confusão que se criou, uma Caninana
mordeu a alva face de Jacy.
A dor era grande, ela chorava desesperada e suas lagrimas amargas cairam sôbre
uma extensa plantação de mandioca.
Como
a dor não passava, as duas amigas decidiram interromper o passeio e
voltar ao Ibacapuranga. Depois
disso, a face de Jacy nunca
mais foi a mesma pois a mordida da caninana,
marcou-a para sempre. Das
lágrimas de Jacy surgiu o tucupí.
Essa lembrança do seu passeio na terra è hoje um dos alimentos
fundamentais das tribos amazônicas.” FONTES:
revista “Nosso Pará” n° 07/2000;
Enciclopedia da Amazônia, de Carlos Rocque;
“Naufragos,
traficantes e degredados” de Eduardo Bueno –Editora Objetiva-1998-
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