Brasile campione senza raggiro Riflessioni sull'inaspettata vittoria della Seleção ai Mondiali
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Rumo ao penta. Un sussurro, una voce. Attorno, il desiderio: prima bisbigliato quasi timidamente, poi scandito a voce alta. Cresciuto al buio dell’incertezza, planato sulla tradizione che sorride ad un calcio ancora soffice e leggero. Malgrado il nuovo che avanza, che sovverte. E travolge. Pentacampeão: vocabolo composto, fragrante di sapori, diminutivo popolare di un sogno mai mascherato, semmai ammesso con candore, senza malizia; sostantivo unico e indivisibile. Scriviamolo pure, scrivetelo, ora si può. Il sogno non è più un sogno: la Seleção è pentacampeã. Otto anni dopo, la festa è autenticamente brasiliana: da Boa Vista a Bajé, da Xapuri a Natal. La quinta volta: più che un sogno, un’esigenza. Gonfiatasi nei dubbi di troppe delusioni, nelle difficoltà della quotidianità. O, più semplicemente, dalla finale di Saint-Denis, Francia ’98. Farmaco unico e insostituibile per lenire ogni dolore sociale e tranquillizzare le coscienze. Medicina infallibile per riannodare il filo di una conversazione interrotta, quattro anni addietro, di fronte al plotone comandato da Zidane. Sì, il sogno è alle spalle, adesso. Attorno, galleggia solo realtà. Il campo ha soppesato e sentenziato. Due a zero, la Germania è triste, il Brasile no. Il Mondiale di Corea e Giappone ammette due soli colori, il giallo e il verde. Vivaci, brillanti, nuovamente vincenti. Il titolo numero cinque fiorisce nel pianto felice di Ronaldo; trasuda dalla fierezza di Cafu che esibisce il trofeo sul podio improvvisato; spunta dalla preghiera di Marcos, avvolto nella bandiera nazionale; esplode nella tenera commozione di Luiz Felipe Scolari, padre di famiglia orgoglioso e tecnico brusco e concreto. La quinta volta è quella del gruppo. “Il mio gruppo”: Felipão sottolinea. “Un gruppo animato da energia positiva, sorretto dal pensiero positivo. Il pensiero positivo di noi brasiliani. Che, quando lo vogliamo, vinciamo”. La quinta volta è quella dell’abnegazione, dell’umiltà. Quando nessuno credeva, ipotizzava, scommetteva: né sul tecnico, né sugli esecutori. “Abnegazione, sì. Ma anche qualità superiore. Quella qualità che ci ha permesso pure di tralasciare qualche aspetto tattico”. Scolari è un caudillo schietto, è un gaúcho semplice che perfora telecamere e taccuini. Immediato, sensibile, censurato, commosso. E sociologicamente corretto: “Ci siamo riscattati davanti a tutti i brasiliani, di fronte alla nazione. Queste sono le soddisfazioni di cui abbiamo bisogno. Anche con questi argomenti possiamo migliorare il nostro Paese”. La quinta volta allontana le critiche di sempre, distrugge quei malumori che si rinnovano. Anche se qualche incongruenza resta scolpita sul cammino che porta al traguardo. Il Brasile riguadagna il palcoscenico con una ricetta efficace: robustezza morale, inventiva, colpi risolutori e una novità piacevole, l’affidabilità di Marcos, guardasigilli quieto e attento, rassicurante e decisivo. Sì, il Brasile che torna a sorridere possiede anche sicurezza in mezzo ai pali. Sicurezza mai provata dai giorni di Gilmar, sicurezza tangibile: di fronte al Belgio, negli ottavi; contro l’Inghilterra, nei quarti; davanti all’ardore dei turchi, in semifinale; al cospetto della Germania, nel capitolo conclusivo. Vietato dimenticare: Marcos, talvolta, ripara alle disattenzioni difensive, salvando la spedizione sul Pacifico. Disattenzioni evidenti, innegabili, che Felipão, ovviamente, non sottoscrive: “La difesa, così criticata, si è dimostrata una delle migliori del mondo. Gli appena quattro gol sofferti lo testimoniano”. Opinioni: ma chi vince può permettersele. Però il Brasile resta idea, arte. Sempre, comunque. Ronaldo riemerge dagli acciacchi, segna quando serve, scala la classifica dei migliori marcatori – otto realizzazioni -, insidia la fama inattaccabile di Pelé: dodicesimo sigillo complessivo nella massima competizione, come il Re. Rivaldo sbroglia situazioni fastidiose, attira le attenzioni avversarie e lascia respirare i compagni di viaggio. Ronaldinho Gaúcho progetta, istruisce e assicura volume, profondità e fantasia alla manovra. Roberto Carlos galoppa, dispone, fatica e suggerisce. Cafu contrasta, attutisce, riparte, aggredisce la corsia di destra. Il Brasile è forma, disegno tecnico che resiste alla svalutazione del football: come ieri. Felipão, però - è il suo merito fondamentale -, l’ha reso più malizioso. Oggi la Seleção è anche metodica applicazione di sostanza, ubbidiente ai dogmi del tecnico. Molto più che nell’èra-Dunga. Molto più che in Francia. Kléberson tampona, cucina, sostiene, quantifica. Gilberto Silva preclude, ottura, riduce e rifiata in silenzio. Il modulo regge e sorregge: la stampa brasiliana faticherà ad ammetterlo. Intascata la Coppa, magari, si abituerà a considerare anche il 3-5-2: così va il calcio. E se, talvolta, il Brasile scricchiola, il problema è un altro. I tre centrali di difesa, concettualmente osteggiati da commentatori e opinione pubblica, assicurano invece copertura accettabile e, nel contempo, la generosa e intensiva progressione dei due operatori di fascia, Cafu e Roberto Carlos, sin troppo appariscenti per non occupare una nicchia privilegiata all’interno dell’impalcatura del successo. Le disfunzioni, piuttosto, possiedono altre cause: i conosciutissimi cali di tensione e la limitata qualità dell’impianto difensivo, ad esempio. La Seleção, ammettiamolo, certe volte appare slegata, soffre l’insistenza del nemico, il contropiede convinto, l’assalto alla porta. Convince quando propone calcio, ma insospettisce quando è costretta a subire: accade spesso fino alla semifinale, meno – molto meno - contro la Germania. Alla fine, comunque, riesce a gestire il pallone perché i piedi sanno anche pensare, ma l’apprensione non stinge facilmente. Poi, suggeriscono gli incontentabili, la controparte si affloscia: ovvero, non morde. Vero: il fallimento delle formazioni favorite pesa sul Mondiale di Corea e Giappone. Più che in passato. E il trend di chi ha remato più o meno sino in fondo (Inghilterra, Germania) non convince poi granchè. Mondiale povero, sì. Avversari limitati, forse. La denuncia – largamente accreditata - è circostanziata: il Brasile è meno concorrenziale di altre volte, ma i problemi altrui mascherano assai bene quelli della gente di Scolari. Cioè: la Seleção non è la più forte, ma la meno fragile. Può essere. Basti pensare al passato recente: all’inguardabile girone di qualificazione ai Mondiali, seriamente minacciati e rimediati con sofferenza inattesa. Oppure ai frequenti cambi di direzione tecnica – Scolari siede sulla panca più bollente del Sudamerica da un anno: prima c’era Luxemburgo - e alla larga e dispersiva utilizzazione di uomini, non sempre meritevoli della convocazione. O, ancora, al difficile approccio con la fase finale della stessa Coppa del Mondo: il primo match disputato contro la Turchia e anche quello contro il Belgio, più avanti, non depongono a totale favore. Argomentazioni legittime. Eppure, nel Brasile di Felipão stupisce quella capacità di ritrovarsi in mezzo alle difficoltà, di riappropriarsi delle redini di una gara nel momento più delicato o meno prolifico, di approfittare delle situazioni contingenti. Cattura quell’abilità di riacquistare forza, voglia e morale quando l’avversario ritiene di essere psicologicamente avvantaggiato, ma anche quella consapevolezza di saper sfruttare interamente le proprie caratteristiche tecniche. La Seleção appare solida dentro, da subito: dribblando l’insoddisfazione popolare, le polemiche legate al caso-Romário e, perché no, il contraccolpo dettato dall’infortunio precoce di Emerson, prima del debutto. E allora, forse, è giusto così: il Brasile è campione del mondo, senza raggiro. Perché chi avrebbe dovuto contrastargli il passo è scivolato, rovinosamente, frettolosamente. E perché, soprattutto, la Seleção è la formazione che ha saputo vantare la qualità media più alta, felicemente abbinata all’efficacia. Mescita irrimediabilmente determinante: senza della quale nulla si ottiene. Mai.
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