Grandi in crisi: ora le "provinciali" dettano legge

Sull'orlo della retrocessione i più blasonati club brasiliani

 

 

di Maurizio Mazzacane

   Ammalati, caotici, svuotati. Peggio: collassati. Economicamente e pure sul campo. Il blasone non abita più le stanze del potere. La storia non fa presente. Il pédigrée antico non intimorisce come ieri. L’affetto smisurato della torcida non basta più. O futebol sta cambiando. Il campionato brasiliano è cambiato. I club popolarmente più rappresentati –o, almeno, molti tra questi- sono sfatti, disuniti. Arrancano, temono. Il rampantismo insolente della provincia sovverte, avvelena, oscura. Chi dettava legge e risultati, ora soffre, insegue: accade a Rio, palesemente. E, più sommessamente, anche a São Paulo, Porto Alegre. Società allarmate, squadre insicure: franano sulle proprie miserie, inciampano tra le scorie di quello che è stato, pagano errori e difficoltà finanziarie, scompaiono dalla mappa dei favoriti, naufragano tra polemiche e ripicche. Molto spesso rischiano il rebaixamento, la retrocessione. Il disagio sembra collettivo, la tendenza si accentua progressivamente e preoccupa. Le ambizioni costano ingaggi cospicui e a nessuno è più permesso distrarsi. Spendere è un problema: eppure gli ingaggi sostanziosi –da soli- non assicurano il successo. Perché il calcio non è scienza esatta, non è equazione automatica: neppure in Brasile. Non c’è trucco e neanche inganno. Il Palmeiras, già tetracampeão brasileiro (’72,’73, ’93, ’94), è inutilmente passato dalla cura di Wanderley Luxemburgo a quella di Levir Culpi, transitando per la gestione di Murtosa, collaboratore principale di Felipe Scolari ai Mondiali di Corea e Giappone. La classifica è seriamente compromessa: se il torneo finisse in questi giorni, il responso risulterebbe disastroso, indigesto. La presenza tra i pali di Marcos, campione del mondo a Yokohama, non ha arginato rovesci pesanti (cinque a uno di fronte al Paraná, quattro a zero sofferto davanti all’Atlético Mineiro), i timori si ramificano: sette sconfitte nei primi sedici test sono il segno di un cammino orrendo.

Tetracampeão è pure il Vasco di Antônio Lopes, appena più avanti in classifica, ma staticamente ancorato all’incertezza, pericolosamente avviluppato alla speranza di non sprofondare. Difetta l’allungo vincente, il gesto che risolve: il concetto vale anche per il Botafogo, giusto per rimanere a Rio. Il presidente Máuro Nei Palmeiro ha già stipendiato Arthur Bernardes, il primo tecnico della stagione avvicendato da Abel Braga. La caduta contro il Coritiba, poi, ha spinto Braga alle dimissioni: ora la guida tecnica è affidata al gaúcho Ivo Wortmann, ex Internacional e Cruzeiro. La crisi colpisce anche il vecchio Mengão, malgrado la prolificità di Liédson: il clan della Gávea, quattro volte campione del Brasile, vive il momento storico più difficile della sua storia, trascinandosi ancora l’amara sensazione del fallimento seriamente sfiorato neppure un anno addietro.

Vasco, Fogão e Flamengo, ma non solo: trema anche la Fluminense, recentemente consegnata alle attenzioni di Renato Gaúcho, ala indisciplinata e deludente della Roma anni ’80. Il tecnico è più conformista del calciatore: Renato pretende disciplina e fa multare Romário, l’acquisto più lussuoso dell’ultima campagna-trasferimenti, colpevole di aver omaggiato con un pugno un compagno di squadra, Andrei. “Il giocatore recepisce l’errore solo quando viene colpito alla tasca: questo servirà di lezione anche agli altri”: il trainer non perdona. Ma il club tricolore attendeva risultati diversi nell’anno del centenario della sua fondazione: il cinque a due inflittogli dal Flamengo e il sei a zero impostogli dal São Paulo bruciano e amareggiano ancora. E, intanto, è vietato sbagliare nuovamente. La crisi del calcio di Rio è, tuttavia, una conferma puntuale dei dati. Il Brasile pentacampeão ospitava un solo convocato carioca: tutt’altro che un caso.

Neppure il terzo polo calcistico sorride: Porto Alegre significa Internacional (campionato complessivamente anonimo, come il Cruzeiro di Belo Horizonte) e Grêmio: la formazione di Tite si è appena allontanata dalla zona di classifica più calda e comincia a intravedere la parte più nobile della graduatoria. Intanto, uno dei leader del campionato è un club ripescato dalla categoria inferiore, ha passo regolare, si chiama Juventude e, soprattutto, si propone come forza emergente del Rio Grande do Sul. Sì, per Grêmio e Internacional è una rivalità nuova e piccante, prontamente servita. Il team di Caxias è insieme rivelazione e solidità, sorpresa e praticità: possiede la miglior difesa del torneo e, malgrado potenzialità offensive limitate, produce punti e riscuote consensi. Come il Coritiba di Bonamigo, altra realtà del Brasileiro 2002, formazione tradizionalmente meno abituata ai riflettori nazionali, ma legittimamente in corsa per il successo finale. O come il São Caetano, chiaramente confermatosi dopo la finale per l’acquisizione del titolo raggiunta nella passata edizione e persa davanti ai paranaensi dell’Atlético, all’epoca assolutamente inattesi. Club giovanissimo, il São Caetano rappresenta una città dell’interior paulista di quarantamila residenti e, soprattutto, viaggia velocemente con costi gestionali digeribilissimi, quindici volte inferiori a quelli delle realtà calcistiche più importanti del Paese.

E allora il rispetto del blasone viene delegato al giovane Santos di Emerson Leão, oppure al regolarissimo Corinthians e all’Atlético Mineiro. Il São Paulo, assemblato dal contestatissimo Oswaldo de Oliveira e dichiaratamente partito per afferrare l’ottava finalissima e, possibilmente, il quarto titolo nazionale della sua storia, rimane invece attardato, malgrado navighi nella zona playoff. Ancora più dietro, molte spine e tristezza. Le tifoserie più numerose, disorientate, non accettano. I clássicos più celebrati diventano confronti di seconda fascia, sviliti e sofferti. E’ il calcio che cambia. E’ il Brasile che si confonde. E’ la recessione che galoppa. E, forse, non è ancora finita.