Alla ricerca dell'identità perduta Darcy Ribeiro sulle tracce del vero Brasile in "Utopia selvaggia"
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"Il
significato dell'utopia selvaggia è la riflessione più profonda che
potessi fare sulla nostra identità, sul nostro sangue, chi siamo noi se
non siamo indios né europei? Siamo una terza cosa. Questa la perplessità
di Bolívar che cercava se stesso. E più tardi di Mário de Andrade, di
Oswald de Andrade. Così suppongo che Utopia selvaggia sia una
riflessione basata sulla rilettura di tanti testi. Una riflessione e una
rivalutazione del nostro sapere. Una lettura delle mie letture. Tutti i personaggi di questa Utopia selvaggia tentano di difendere il "loro" Brasile, e di indagarlo, di scoprirne origini e meccanismi. Ribeiro, tra una battuta e l'altra, riempie le pagine di citazioni, rimandi, interrogativi, minuziose descrizioni che solo un antropologo della sua levatura può somministrare con tanta audacia. E quando meno ce l'aspettiamo, giunge un altro Brasile: quello descritto da un certo imperatore assoluto; attraverso un preciso e atroce organigramma di una società dove il potere e il piacere sono governati dalle multinazionali, assistiamo alla scomparsa degli altri brasili fino a qui raccontati. Siamo ormai al delirio totalitario che si ripropone di "disfare e rifare la natura umana: basta con l'esausto Homo Sapiens, largo all'Uomo Nuovo Programmato. (...) Tutti nasceranno istruiti e addestrati a vari compiti che eserciteranno con grande piacere". L'ordinamento politico, famigliare, religioso, i riti, i mezzi di comunicazione e gli svaghi - tutto: dovere e piacere, potere e droga, televisione e partecipazione popolare, tutto quanto viene strutturato e diretto dall'utopia multinazionale. Questo nuovo Brasile ormai ha perso il suo colore, la sua istintiva originalità, la sua bellezza. Si esce sconcertati dalla lettura di questo libro, che in realtà non dice nulla di nuovo, ma ce lo dice in un modo tale da farci sentire sull'orlo dell'abisso. Troppo è infatti quello che un popolo perde rispetto a quanto trae dalla cosiddetta civilizzazione moderna. Ormai il danno è compiuto, e sembra impossibile tornare indietro, o perlomeno frenare questo processo di autodistruzione. A commento di questo suo libro, Darcy Ribeiro riflette: "Qualunque operaio, o qualunque laureato, è stato trattato come una cosa, ha sempre un superiore, è un subordinato. L'indio non ha mai conosciuto la stratificazione. Ogni tribù che raggiungevo era una fucina di domande: chi è il signore del sale, chi è il signore del fiammifero. Convinti che io potessi spiegare e loro capire. I portatore che mi seguivano, contadini dell'interno, non restavano mai lì a sentire le risposte. Sanno di non sapere, sono rassegnati. Ma l'indio, nella sua innocenza, usa la testa. Ha molta più fantasia. Ed è estremamente meticoloso: un indio che fa una cesta, la fa con una volontà di bellezza che è diecimila volte superiore a quella necessaria per un lavoro del genere. (...) Tutti quelli che li hanno incontrati per primi, tutti, hanno pensato che fosse lì il paradiso terrestre. Vorrei tanto far fare qui a Rio un pannello, un murale, non so, una cosa grande che mostri gli europei che stanno arrivando sulle loro navi e gli indios sulla costa. Gli uni di fronte agli altri. Gli europei barbuti, capelloni, puzzolenti come bestie, con la faccia scavata, rosa dallo scorbuto, un'umanità orrenda, diabolica. E dall'altra parte gli indios levigati, colorati, sani. Credo bene che ci vedessero il paradiso. (...) Ora, all'improvviso, si trovavano di fronte, scoprivano un'umanità illibata, bella, innocente, che si muoveva leggera tra piante e fiori di indicibile bellezza. L'Eden."
Darcy Ribeiro, Utopia selvaggia - Einaudi 1987 Titolo originale: Darcy Ribeiro, Utopia selvagem. Saudades da inocência perdida. Uma fábula - 1982
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