APPUNTI DI VIAGGIO
Itinerari
non comuni: da São Luis a Jericoacoara
di Silvia Gobbi |
A São Luís trascorriamo ancora qualche giorno, o meglio qualche notte, travolti dalle musiche e dai costumi del Bumba-Meu-Boi e di molti altri generi musicali nordestini. Siamo in piena Festa de São João, la spettacolare festa popolare che ogni anno in giugno anima le strade e le piazze di São Luís.Una mattina, prestissimo, arriva Edson in impeccabile camicia bianca a prenderci in albergo. Ha volato come primo pilota per Varig molti anni. Adesso fa sognare i turisti a bordo del suo piccolo Piper, quattro posti compreso il suo, quasi sfiorando le dune dell'unico deserto brasiliano, il Parque Nacional dos Lençoís Maranhenses. Decolliamo, ma in volo fa un po' caldo. Edson apre il finestrino e appoggia il gomito fuori, tranquillo, "tanto non siamo ancora in quota". Stiamo volando sopra un cuscino, verde come il muschio fittissimo davanti alla capannina di Gesù Bambino nel presepe di casa e ciuffi di palme come piumini da cipria che luccicano al sole. Edson chiude il finestrino, saliamo ancora un po'. Dopo un'ora, il verde comincia a diradarsi e farsi più basso. Edson sorride perché dev'essere abituato a questo punto del volo alle esclamazioni di chi sta seduto dietro di lui. Dune di sabbia come panna montata, adagiate come lenzuola stese al sole su specchi d'acqua turchese accecante, striature cioccolata che rincorrono la panna. Centocinquantamila ettari di deserto che da gennaio a giugno si riempiono d'acqua, e ogni miglio in più è un dito puntato contro il finestrino. Al posto dei flap, Edson apre gli sportelli, atterriamo a Barreirinhas. Boa sorte, e andiamo alla ricerca della nostra barca sulle sponde del fiume Preguiça, Pigrizia. Qualche ora di navigazione condivisa con due ragazzi spagnoli, una sosta lungo il percorso e la nostra barchetta attracca, è una parola grossa, sbatte contro il ciglio sabbioso del fiume, sotto la semplice insegna "Pousada do Paulo". In vita mia, io non avevo mai visto rospi e granchi così grandi, non avevo mai "dovuto" dormire a una certa ora perché il generatore alle undici non dava più corrente, non avevo mai condiviso il mio bagno tutti i giorni con un ranocchio nello scarico della doccia e che tutti giorni cercavo di far uscire, non mi ero mai scottata così in fretta come nei dieci minuti a piedi dalla mia stanza all'oceano. Ma a Caburé sì. Vivono qui, sospesi tra il fiume e l'oceano, Paolo e il suo instancabile aiuto tuttofare, che continua con una scopetta di ramoscelli a spazzare via la sabbia dai tavoli sotto il portico dove si cena la sera con la televisione accesa. Lavoro inutile, c'è sempre molto vento qui. Per questo mi accorgo di un cartello che dondola sopra il bancone che invita al rispetto dell'ecosistema della zona. Qui? Raramente ho visto luoghi così distanti dalla civiltà, mai ho provato come qui e a Mandacaru, il villaggio di pescatori dall'altra parte del fiume, la sensazione di aver perso completamente la dimensione del tempo. Sul tratto di costa oceanica non vedi una costruzione per centinaia di chilometri, lungo il fiume passano solo piccole imbarcazioni a vela e piroghe a remi e una volta la settimana il battello per i rifornimenti alla pousada. Paolo tiene con cura le riviste che parlano di questo angolo di paradiso brasiliano.
Trovo su un vecchio numero di Terra un articolo sul Delta do Parnaíba e con l'aiuto di una ragazza di São Paulo mi metto a leggere. A un certo punto dell'articolo, il giornalista scrive "relaxe na rede, entre no clima" (rilassatevi sull'amaca, entrate nell'atmosfera), consiglio che seguiremo alla lettera durante la lunga navigazione, ma che calza a pennello anche qui. Ogni stanza è una casetta con un piccolo portico e un'amaca di traverso. L'unico evento della giornata è la voce che arriva puntuale a chiedere che pesce vuoi mangiare la sera. Indimenticabile. Come Mandacaru, la vista dalla cima del faro, l'assenza di qualunque rumore legato al termine civiltà, le sue stradine di sabbia, i bagni nelle lagune d'acqua del
Lençois.
Benvenuti signori sulla strada Caburé direzione Tutóia: la spiaggia dell'Oceano Atlantico. Con la speranza di ridurre un po' la velocità, citiamo a Jonas vari campioni di F1 ma il suo sguardo si illumina solo quando pronunciamo Ayrton Senna. Peccato che cominci ad andare ancora più veloce.
Jonas lascia il tratto di bagnasciuga e si dirge all'interno. Il suo modo di prendere le dune di sabbia morbida in salita è veramente discutibile,
secondo il parere di tutti noi poveretti a bordo. Molte volte non riusciamo a superare la china e lui lascia scivolare il pick up all'indietro. Poi ci riprova e ride di gusto. Dobbiamo arrivare a Paulino Neves prima delle quattro. Le strade sono semplici piste in terra che entrano ed escono da fiumiciattoli e lagune salmastri che gonfiano insieme alla marea, e Jonas come fa per capire se ce la faremo? Tra uno scossone e l'altro, dentro e fuori dall'acqua, spesso siamo quasi fermi. Lui apre la portiera, allunga il braccio, si bagna le dita. Poi le assaggia. Questo è il suo orologio salino personale: così capisce se l'oceano incombe.
Attraversiamo il ponticello in legno di Paulino Neves: sulla via principale gli asini sonnecchiano intontiti dalla calura sotto le fronde di alberi giganteschi. Attraversiamo la campagna per decine e decine di chilometri senza incontrare mai anima viva. Perché è domenica? Chissà. Passiamo di fianco a qualcosa che è poco più di un tetto in paglia con quattro pali. Ci accorgiamo che ci sono sedie, una lavagna e un gruppo di bambini. Jonas frena e scendiamo. I bambini sono più sorpresi di noi e sorridono divertiti. Non c'è un insegnante, stanno ripassando da soli, i più piccoli aiutati. dai più grandi. Il sorriso nel volto di una di quelle bambine non l'ho più dimenticato Prendiamo possesso delle stanze e dopo neanche mezz'ora mi bussano alla porta. Appare la signora americana che mi dice: "Dona Elza è arrivata". Completamente sbalordita, mi ritrovo ad abbracciare Dona Elza come se fossimo vecchie amiche e mi sento chiedere a che ora vogliamo lo spettacolo la sera stessa in hotel. Io non chiedevo tanto, ma questo è quello che è successo: Dona Elza, sessant'anni, tutto il gruppo di musicisti con caixas e cabaças (tamburi e maracas), tutte le ballerine compresa la nipotina di dieci anni, sono lì la sera stessa a rifare per intero lo spettacolo che avevamo visto a São Luis. Alla fine, chiedo a Dona Elza qual'è il segreto della felicità e la risposta è:
"Io non sono mai triste, amore mio. Mi piace divertirmi. La mia allegria viene da me. Voglio l'allegria con tutta me stessa, con tutta la mia volontà. Con il caroço io mi rallegro, e l'allegria guarisce tutto. Il segreto della felicità, mi chiedi? Cantare, danzare, amore e allegria, ecco tutto." Facile, no?
La mattina dopo, all'imbarcadero davanti al mercato, il vecchio battello in legno bianco e azzurro per Tutoia è lì che aspetta
sonnacchioso con le pompe di sentina al minimo, mentre i marinai caricano nella stiva di tutto: sacchi di legumi, frutta, casse di bevande e lattine. Sulle teste dei passeggeri che salgono a bordo volano severi gli avvoltoi. C'è tempo prima di salpare, così andiamo in giro per il mercato a comprare frutta, acqua e biscotti. Si trova veramente di tutto, da montagne di scarpe spaiate a pesci dalle dimensioni impressionanti.
Pronti, si parte. Per il Delta più grande di tutte le americhe, 2.700 chilometri quadrati e l'unico a sfociare in mare aperto. Il nostro timoniere in questo labirinto vegetale è João Batista Duarte: "Lo faccio da sedici anni, non uso la bussola e neanche le mappe, mi bastano le stelle". E in pieno giorno le secche. Le schiva una ad una. Il primo naufrago ad arrvare qui è stato Nicolau de Resende, salvato dagli indios Tabajaros. Da allora, l'arte di navigare ha sempre voluto dire una cosa sola: poter sopravvivere.
Con un real ci prendiamo un'amaca sul ponte coperto, conviene perché il viaggio sarà lungo, una decina di ore. Anche se parlare di tempo qui, onestamente è una bestemmia. Tutto sembra immutato da secoli e la vita dei villaggi lungo il
Parnaíba è scandita semplicemente dal passaggio della nostra gaiola. Prima le cose erano diverse. Questo era il regno della carnauba, la palma miracolosa scoperta da James Frederick Clark nel 1847: dalla radice si ricavava un rimedio contro la sifilide, dal palmito vino e aceto. I frutti servivano ad alimentare il bestiame, col tronco si facevano le pareti di casa, con la cera le candele o i primi long-palying degli anni '50. Poi è arrivato il petrolio e con gli scarti della sua lavorazione si è cominciato a produrre tutto ciò che prima si faceva con la carnauba. Un tempo Tutóia era la città istituzione del delta, Parnaíba la sua porta d'ingresso. Ancora oggi, Parnaíba sembra essere irrimediabilmente legata al passato: larghe vie, alberi, belle piazze, case coloniali, si respira ancora una gradevole nostalgia di inizio secolo quando glamour e soldi entravano nel porto, il più importante di tutta la zona. Oggi, la carnauba non rende più, la raccolta dei granchi è un lavoro insalubre e c'è poco turismo privilegiato. Tutto il Delta è luogo di grande interdipendenza tra vegetazione e macacos, coccodrilli, tartarughe, ibis rosso fuoco e moltissime altre specie. Paradossalmente, il successo di questa fusione tra flora e fauna ha le stesse origini delle cause di distruzione della zona: la proprietà privata. L'Ilha do Caju, cento chilometri quadrati di isola di proprietà di Ingrid Clark è un esempio lampante: un progetto Ong (Organizzazione non governativa, ndr) a salvaguardia del suo patrimonio ecologico e una sola pousada per una ventina di posti letto. Arriviamo a Tutóia che fa già buio, stanchi e un po' intontiti dai motori del barco, ma con le pupille ancora sature di un tramonto imponente. Sommersi da offerte per trascorrere la notte, rifiutiamo l'invito di un italiano e della sua pousada, ma dopo aver messo piede nel miglior albergo di Parnaíba, siamo costretti a ricrederci, lo chiamiamo e traslochiamo da lui. La moglie brasiliana mi regala a colazione un cd di forrò e saliamo sul buggy di Marco, direzione Camocim. Condividiamo il primo tratto di strada con i pescatori della zona, perché ancora una volta, invece di correre sull'asfalto, siamo vicino alle onde, sul bagnasciuga, ma per poco: il Piauí si affaccia sull'Oceano per meno di cento chilometri. Entriamo nel Ceará, passiamo i paesini Chaval e Barroquinha. Siamo a Camocim. Ci fermiamo davanti al Rio Coreaú. Sull'altra sponda, un'altra buggy in cima a una duna ci fa segnali con gli abbaglianti. Peccato non fermarsi un po' qui a guadare i pescatori che rientrano e arrotolano le vele delle jangadas. Peccato, se è vero che tra un po' qui sorgerà un grande villaggio turistico all inclusive. Chico dice che andremo veloci e non vuole che ci sediamo sulla spalliera del sedile, ma la tentazione è troppo forte e disubbidiamo. La strettissima pista in sabbia si snoda tra cactus, banani e carnauba. Sobbalzeremo per quaranta chilometri in questo modo? Improvvisamente usciamo da questo giardino botanico che farebbe impazzire qualunque vivaista molto chic di Milano e la vista si spalanca su una spiaggia senza fine. Ancora Oceano, ancora sabbia al posto dell'asfalto. Adesso sì che si va veloci. Non potrebbero farmi regalo migliore e mi metto a cantare a squarciagola. Chico fa lo stesso, ma come fosse mandata dall'Ente turistico del Ceará a riprova dell'incontaminazione dei luoghi, una rana salta sulla cloche, poi gli finisce in bocca. Lui se la strappa via con nonchalance e noi ridiamo come pazzi. Ma dove siamo? Quasi a Tatajuba, poi a Guriú: altra chiatta, ma stavolta spinta con un palo. La purezza di quello che vedo, la spettacolarità delle vele delle jangadas in controluce, mi spinge a barattare con Chico la sua buggy contro la mia Twingo, con tanto di scambio di stagioni, tanto a tre gradi sotto l'equatore, va sempre bene. Jericoacoara è diventata famosa da quando un prestigioso quotidiano americano l'ha defintita una delle più belle spiagge del mondo. La Lonely Planet sconsiglia caldamente di camminare a piedi scalzi anche per le vie del villaggio, che sono tutte di sabbia. I bichos de pé si infilano sotto le unghie dei piedi molto facilmente. Poco male. E' area ambientale protetta e merita il viaggio. Molto di più del soggiorno. Prendete un villaggio di pescatori di cinquecento anime difficile da raggiungere, dove la vita non costa niente. Pesce a tonnellate con la tecnica dell'arrastao - si buttano le reti la sera e la mattina tutti insieme si tirano a riva. Tutti hanno diritto almeno a un pesce. Banani spontanei e tutto quello che serve arriva da Camocim. Cosa manca? Niente, perché questo era un posto da favola. Così bello e così fuori dal mondo che è stato preso di mira da una comunità di italiani alternativi e finto hippy. Ci stavano e ci stanno così bene che non se ne sono più andati e si ostinano a fare quelli giusti-che-hanno-capito-tutto-della-vita. Risultato: un po' per mancanza di lungimiranza e investimenti da parte del governo, un po' perché tra gli alternativi si è sparsa la voce, lo sviluppo turistico di Jerí ha impoverito i brasiliani che diventano sempre più poveri, e continua a vendere questa meta in pacchetti mordi e fuggi di tre giorni da Fortaleza.
Gli stipendi base dei brasiliani restano di 150 reais al mese, quelli dei camerieri dei ristoranti corrispondono al 10% di quello che ordinano i clienti.
Il pesce più piccolo si butta via e con centinaia di chilometri di costa a disposizione i privati fanno fatica a trovarlo. I cavi sotterranei per l'energia elettrica si ossidano perché nessuno si cura della
manutenzione e la corrente va e viene. Per un posto dove il pesce regna sovrano, fate voi.
Ci sono vari progetti a difesa dell'ambiente. Uno dell'Ibama, l'Istituto per la Protezione
Ambientale; un altro per la raccolta differenziata dei rifuti, e uno anche per il finanziamento al mercato del pesce, il Progetto S.José. Speriamo che qualcosa si faccia davvero, perché il posto è magnifico. Anche soltanto per guardare il sole al tramonto: tutti i giorni, si va in cima a una duna di sabbia altissima. Si può stare fermi lì, a farsi scivolare la sabbia rinfrescata tra le dita e vedere se il sole è un po' più arancio di ieri.
O catapultarsi giù dall'altra china con un surf.
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