AVVENTURE DI UN BRASILIANO PER LO STIVALE

Scusi, dove fica il duomo?

(quinta puntata)

 

di Luiz Eduardo Florian

 

 

Comunicare, che fatica

 

“Todo dia ela faz tudo sempre igual, me acorda às seis oras da manha…”

Ah, la routine… ora che mi sono abituato ad avere degli indirizzi (i miei intendo, ricordate?) devo abituarmi anche a gestirli… Beh, la prima cosa che ti trovi a gestire la dispensa. Logicamente dopo esserti presentato agli altri inquilini. Come vi ho spiegato, le mie “case” non erano che posti letto in camere nelle quali, se sei fortunato, sono singole, altrimenti ti tocca votare comunista. Ma, dicevo, la dispensa. Quando ho lasciato il Brasile, nell’87, avevamo un’inflazione più o meno dell'80-100 per cento al mese. Non che fosse una tragedia, per carità: dall'epoca in cui riesco a contare i soldi la situazione è sempre stata quella. Ti regoli, semplicemente, di conseguenza.

La spesa, per esempio, non la fai mica al bisogno, ma solo quando prendi lo stipendio. Quindi, rigorosamente una sola volta al mese, e quel che acquisti deve durarti per i fatidici 30 giorni che ti separano dallo stipendio successivo. La ragione è ovvia: se dimentichi qualcosa, quando torni a prenderla… costa di più!

Inoltre, vi sono variegate forme di sodalizi di tipo economico che risultano essere essenziali: la frutta, ad esempio, non la compri al mercato o al supermercato, ma ti metti d’accordo con qualcuno che, ogni tanto, vada in campagna o da qualche grossista e ne compri in grande quantità, per tutti.

Ne risulta che, appena fatta la spesa, mangi da signore. Poi il livello inizia ad abbassarsi e giunto a fine mese finisci con l'inventarti strane ricette per dare fondo a ciò che ti è rimasto. Anche perché di lira per il super non ne hai più…

Ma ora ero finalmente arrivato in Europa, in Italia, terra dove il gettone telefonico costava ancora 200 lire, come mi raccontavano alcuni amici passati da queste parti nel lontano '83. E allora? Allora un bel niente, perché le abitudini sono abitudini, accidenti. Ed eccomi svolazzare al supermercato per la mia prima spesa, con tutti che scrutano me e il mio pantagruelico carrello chiedendosi dove avrei fatto la festa. Per non dire dello stupore dei compagni di stanza che mi chiedevano allibiti: ma se hai soldi per tutta questa roba, cosa ci fai qui? Quando poi chiedevo loro come si potesse fare per conservare la frutta, la disfatta era completa: ritenendomi completamente pazzo, mi indicavano qualche spazio nelle loro misere dispense in cucina…

Qualche volta ci provavo ad andare al mercato acquistando solo un pacco di pasta, o il caffè, ma era inutile. Non ci riuscivo… l'impulso era così forte che  persino oggi, con 2 figlie e 13 anni di "italianità", andare al mercato e comprare solo quel che c'è scritto sulla lista, beh… è proprio un'utopia. Sistemato lo stomaco, tocca, come minimo, sapere dove ti trovi. E allora si improvvisano fugaci incursioni nel mondo indigeno. Oddio, debbo sapere se dopo aver mangiato, questi che mi girano intorno ora mangeranno me, non vi pare?

Il primo approccio è l’unico possibile e "alla mano", quasi obbligatorio: quello come turista. Certo, un turista un po’ particolare, più attento alle usanze dei “locali”, simile a un intellettuale o un ricercatore capitato lì per caso. Comunque sia, non si scappa alle prime figuracce delle domande fatte col dizionario in mano. Si comincia chiedendo dov’è questo, dov’è quello, cercando di farsi venire almeno un pizzico di voglia di andarci davvero.

E a questo punto, per un brasiliano, comincia la prima vera disfatta. Neanche agli americani o ai giapponesi capita così presto. Uno prende il dizionario, cerca “onde”, ok, si dice “dove”. Cerca “rua”, ok, si dice “strada”. Cerca “ponto de onibus”, ok, ecco “fermata dell'autobus”. E via, possiamo affrontare il mondo intero. Non ci passa minimamente per la testa, come invece farebbe qualsiasi anglosassone con un Qi appena sopra il 60, di tradurre anche il verbo.

Ecco così spuntare quella... meraviglia esotica meglio conosciuta come "portugliano": una improbabile lingua, un fritto misto di sostantivi italiani e verbi brasiliani, che utilizzata con il proverbiale giornalaio fiorentino che crede di aver già visto di tutto, crea un vero sconquasso. E come sempre, sfortuna vuole che a trovarmi sia sempre io in queste allegre situazioni nelle quali, "forte" dei miei sostantivi, chiedo con sfacciata sicumera:

“Scusi, dove fica il duomo?”

Ah, non hai capito? No problem, te lo ripeto pure: “dove FICA il duomo?”.

Cos'è quel sorriso deficiente? Il duomo fica da qualche parte, no? Dov’e’ che fica? Fica, signore, capisci fica, allora, il duomo, dove fica?

Con la colorita gestualità che anche a noi brasiliani non manca e che sfortuna vuole rimandi a tutt’altra cosa in Italia, corredo la mia domanda di gesti equivoci nel vano tentativo di far capire all'ormai sempre più ilare giornalaio cosa sia un duomo. Allora, mi dici dove fica ‘sto duomo o no? Vi lascio immaginare il seguito…

Nota necessaria: il verbo stare, in portoghese, si dice tanto “estar” (como voce esta?) quanto “ficar”, nel senso di luogo: “onde voce vai ficar” (dove sarai), “fica aqui” (stai qua), “fiquei parado” (sono rimasto fermo), ecc. E la indecente terza persona singolare viene, ahimé, usata spesso e volentieri.

Beh, da questo infortunio si riemerge abbastanza presto, ma non si sfugge al solito amico o amica di passaggio che vengono a farti visita e, in pubblico (a me è accaduto in un affollatissimo supermercato), ti gridano inconsapevoli: “FICA aqui un pouquinho que eu vou ali!” (stai qua un attimo che vado lì).

Da evitare, ripeto, da evitare assolutamente lo scellerato tentativo di correggere l’amico al volo, come ho fatto io. Come unico risultato ottieni che lo sventurato ti prende per deficiente e continua a ripetere, sempre più forte, “fica aì, fica aì, porra, 'tò dizendo pra voce ficar aì”…

In un certo senso, è un bene prendertela sul naso subito, al primo approccio, questa terza persona singolare... ti fa diventare più prudente, più possibilista. Così, quando capita il primo “aggancio” in lingua nativa, e quella lì per lì ti butta un “come sei morbido”, eviti di mollarle un cazzotto. Perché morbido, in portoghese sta per viscido, doppiogiochista, farabutto.

Ecco, essere introdotto da qualcuno col naso già tumefatto non è male. Se non avete questa fortuna, e per di più vi piace la spremuta come a me, evitate di chiedere una “laranjada” o un “suco de laranja”. Nel primo caso, vi daranno un bicchiere d’acqua con gocce d’arancio, nel secondo una lattina/bottiglia con il succo. Evitare anche di specificare “naturale”, perché ogni contenitore reca, sull’etichetta, la dicitura “100% naturale”, e vi prendono per scemi. Evitate anche gli insulti in lingua nativa. Chiamarli "istronssi" suscita, in genere, un moto d’ilarità. Meglio fingersi muto e puntare con il dito. A volte funziona.

Bene, a parte queste cosucce come chiedere il caffè di 406 tipi diversi, perché se chiedi solo caffé ti arrivano tre-quattro gocce a 2500 gradi, l’impatto con i nativi è esaltante. Per prima cosa, ti rendi subito conto che gli aborigeni locali si tengono niente male, eccome. Anche il portiere dell’alberghetto più sperduto ti sembra uscito dalla copertina di Vogue. Il che ti fa venire in mente, subito, due considerazioni: la prima, che i parrucchieri qui lavorano parecchio. La seconda, che evidentemente tu sei messo come minimo da indigente o, peggio, da turista americano. Come corollario immediato ne consegue che con l’altra metà della tribù, quella femminile, come minimo sei messo malissimo. L’unico modo di sopravvivere è di puntare su una mise "esotica", e qui forse si spiega perché i miei connazionali evitano di fuggire disgustati quando qualcuno gli canta “cacao meravigliao” o la lambada…

Chi dice che abbiamo le donne più belle del mondo, non ha mai visto Firenze. Uno stillicidio di minigonne, corpetti, calze a rete, tacchi a spillo, una sfilata permanente. Trucchi a go-go e, quando sono esagerati, gira pure al largo perché sono americane. Oppure acqua e sapone, sguardi candidi, da spot. Anche se trasandate sono carine, e vai a capire come facciano. Dal parrucchiere, secondo me, una capatina al giorno la fanno. Maschi compresi.

Sarà forse per questo motivo, ma hanno quasi tutte la stessa faccia e questo, dopo un po’, disturba. Non so spiegare questa sorta di "saturazione" che ti coglie quando meno te lo aspetti. Mia moglie l’ha capito solo quando per la prima volta è andata in Brasile. In Italia è come se tutti abbiano lo stesso... fenotipo, scusate la parola: i tratti morbidi, gli occhi sporgenti ma non troppo, la fronte dritta, il viso ovale. Quelli che sui passaporti la polizia definisce "tratti regolari". Io invece, abituato a un crogiuolo di teste, menti, occhi, colori e forme di viso tutt'altro che "regolari", qui mi sentivo un po’ come voi quando osservate i giapponesi: eh sì, avete capito, tutti con la stessa faccia. Logicamente si evita il più possibile di dire una cosa del genere. Io stesso lo sto dicendo da una posizione ormai più che sicura. Ma così è. Provate ad andare a Rio o a Sampa, voi italiani, e vi renderete conto.

Tornando al quotidiano, un’altra cosa che devi sistemare subito sono i contatti. Adesso ero “fermo”, appunto, avevo un cap, un indirizzo, dovevo mettere al corrente delle mie giornate tutte le “radici” lasciate indietro… e, lettere dopo lettere, ti accorgi che… non ti arriva mai niente! Non che non ti scrivano, tutt’altro. Ma presto ti rendi conto che la posta è qualcosa di effimero, nebuloso, quasi magico: la lettera attesa ti arriva solo dopo due-tre mesi dalla data di spedizione. Che sommati con gli altri due-tre mesi che hanno impiegato a recapitare le tue, ecco assalirti il dubbio che le tue radici abbiano fatto festa, dopo la tua partenza…

E allora ti affidi al buon telefono. Ah, meraviglia, senti le voci dei tuoi cari, la tipa che hai lasciato (o che ti ha lasciato un momento prima che fossi tu a farlo), gli amici, ecco, un piacere. Svelto però, che al secondo “come stai, bene” ti sono già volati un deca e mezzo, che nella contabilità di un viaggiatore equivale a una fortuna! Queste toccate e fughe sono scandite da un ignobile apparecchietto che gira come un forsennato. I più li chiamano “conta-scatti”, ma per me erano elettro-cardiogrammi, o indicatori del livello d’ansia.

Ed ecco che, in breve, cominci a girare alla larga dalle postazioni telefoniche pubbliche. Le guardi da lontano, come un oggetto proibito, tipo una bella auto o simili. Paradossalmente, mi ossessionavano i telefoni pubblici comuni: li provavo tutti nella religiosa speranza di coglierne qualcuno rotto... quanto basta a farti telefonare senza chiederti vagonate di gettoni. La stazione centrale era una tappa quotidiana obbligata. Ce n'era sempre qualcuno che versava in questa sorta di fortunata disponibilità. E allora, una vera goduria… minuti e minuti a parlare del più e del meno, a chiedere del cane del cugino dell’amico del tuo vicino, di argomenti "urgenti" che spaziano dalle quotazioni di borsa alla politica, dalla cronaca nera a quella rosa. 

Erano le volte che m’incazzavo non trovando qualcuno dall’altra parte: ma come? Dopo tutta la fatica che ho fatto per telefonarti a sbafo, tu ti permetti di andare a spasso? Allora in genere ci si metteva d’accordo, e di là dell’Atlantico si mettevano in attesa… di un guasto. Nelle stazioni, ogni tanto, arrivavano i tecnici a riparare i telefoni (bastardi…), e allora ci toccava cercarne altri. E' il momento in cui il passaparola la fa da padrone. Quando ti arrivava la notizia della preda in zona (il telefono rotto), ci si buttava addosso come leoni. E l'affollamento era immancabile.

E qui, altro fenomeno noto come quello della  “coda virtuale” ante-litteram, quando internet ancora non si sapeva che cosa fosse. Nessuno in coda al telefono, per non destare sospetti. Si rimane a bighellonare nei paraggi, bene attenti a che cosa fanno quelli prima di te, e controllando chi arriva dopo. Insomma, la fila c'è ma non si vede, ed è rigidissima. Se però non la vedi o fingi di non vederla, sono i cazzotti a ricordartene l'esistenza. Ma questa corvée è logorante come tutte, e poiché solo raramente si riesce a ottenere un buon piazzamento in coda, non rimane che specializzarsi nel guastare un telefono, quando ti serve. Beh, a essere sincero non mi è mai riuscito di farlo. Ma i metodi erano migliaia, uno più fantasioso dell’altro.

Prendete i telefoni grigi, chi li ricorda? Ma sì, quelli decadici, senza tasti numerici, con la rotellina nella quale infilare il dito per comporre il numero. Occorreva un filo di rame che facesse il contatto-terra con il ricevitore della cornetta: ecco il telefono emettere alcuni strani sibili e... bingo! Da quel momento in poi non esigeva più il gettone per poter telefonare. Un metodo adatto a provetti "guastatori". Per quelli rossi attaccati ai muri con inserimento del gettone dall'alto, era necessario legare quest'ultimo a un filo di nylon. Qui era il pescatore a dare il meglio di sé. Il problema era azzeccare esattamente il punto di contatto senza far scivolare il gettone nella scanalatura, altrimenti era un punto di vantaggio per la Telecom.

Altri invece, evidentemente laureati in chimica, andavano in giro con strane boccette piene di acqua e sale. Si avvicinavano con dotta cautela al malcapitato terminale versando molto professionalmente la soluzione idrosalina nella scanalatura insieme a un gettone. Come facesse il magico intruglio ad andare esattamente dove dovesse per fare grippare il marchingegno, per me resta ancora un mistero.

Naturalmente vi erano mille altri modi ai quali cui, come in ogni leggenda metropolitana che si rispetti, non ho mai assistito e che neppure dopo pazienti corsi accelerati, hanno mai funzionato, effettuati dal sottoscritto. Certo mi sarebbe piaciuto vedere la faccia dei tecnici che, smontando il telefono, si chiedevano chi fosse il deficiente che si divertiva ad affogarli nell'acqua salata...

Leggende metropolitane a parte, le cabine telefoniche hanno costituito il mio primo contatto con la città medicea e mi hanno permesso di conoscere gente e di scoprire poco alla volta i trucchetti  per campare. In fondo è stata proprio questa, la parte più divertente di questo viaggio.  

 

(Continua)