AVVENTURE DI UN BRASILIANO PER LO STIVALE Scusi, dove fica il duomo? (quinta puntata)
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Comunicare, che fatica
“Todo dia ela faz tudo sempre igual, me acorda às seis
oras da manha…” Ah, la routine…
ora che mi sono abituato ad avere degli
indirizzi (i miei intendo, ricordate?) devo
abituarmi anche a gestirli… La spesa,
per esempio, non la fai mica al bisogno, ma solo quando prendi lo stipendio. Quindi, rigorosamente una sola volta al mese,
e quel che acquisti deve durarti per i fatidici 30 giorni che ti separano
dallo stipendio successivo. La ragione è ovvia: se
dimentichi qualcosa, quando torni a prenderla… costa di più! Inoltre,
vi sono variegate forme di sodalizi di tipo economico che risultano essere
essenziali: la frutta, ad esempio, non la compri al mercato o al
supermercato, ma ti metti d’accordo con qualcuno che, ogni tanto, vada
in campagna o da qualche grossista e ne compri in grande quantità, per
tutti. Ne
risulta che, appena fatta la spesa, mangi da signore. Poi il livello
inizia ad abbassarsi e giunto a fine mese finisci con l'inventarti strane
ricette per dare fondo a ciò che ti è rimasto. Anche perché di lira per il super non ne hai più… Ma ora ero
finalmente arrivato in Europa, in Italia, terra dove il
gettone telefonico costava ancora 200 lire, come mi raccontavano alcuni
amici passati da queste parti nel lontano '83. E allora? Allora un bel
niente, perché le abitudini sono abitudini, accidenti. Ed
eccomi svolazzare al supermercato per la mia prima spesa, con tutti che
scrutano me e il mio pantagruelico carrello chiedendosi dove avrei fatto la
festa. Per non dire dello stupore dei
compagni di stanza che mi chiedevano allibiti: ma se hai soldi per tutta questa roba, cosa ci fai qui? Qualche volta
ci provavo ad andare al mercato acquistando solo
un pacco di pasta, o il caffè, ma era inutile. Non ci riuscivo…
l'impulso era così
forte che persino oggi, con 2 figlie e 13 anni di "italianità", andare al
mercato e comprare solo quel che c'è scritto sulla lista, beh… è
proprio un'utopia. Il primo approccio è l’unico
possibile e "alla mano", quasi obbligatorio: quello come turista.
Certo, un turista un
po’ particolare, più attento alle usanze dei “locali”, simile a un intellettuale o
un ricercatore capitato lì per caso. Comunque sia,
non si scappa alle prime figuracce delle domande fatte col dizionario in mano.
Si comincia chiedendo dov’è questo, dov’è quello, cercando di farsi
venire almeno un pizzico di voglia di andarci davvero. E
a questo punto, per un brasiliano, comincia la prima vera disfatta.
Neanche agli americani o ai giapponesi capita così presto. Uno prende il
dizionario, cerca “onde”, ok, si dice “dove”. Cerca “rua”, ok,
si dice “strada”. Cerca “ponto de onibus”, ok, ecco “fermata
dell'autobus”. E via, possiamo affrontare il mondo intero. Non ci passa
minimamente per la testa,
come invece farebbe qualsiasi anglosassone con un Qi appena sopra il 60,
di tradurre anche il verbo. Ecco
così spuntare quella... meraviglia esotica meglio conosciuta come "portugliano":
una improbabile lingua, un fritto misto di sostantivi italiani e verbi
brasiliani, che utilizzata con il proverbiale giornalaio fiorentino che crede di aver già visto di
tutto, crea un vero sconquasso. E come sempre, sfortuna vuole che a trovarmi
sia sempre io in
queste allegre situazioni nelle quali, "forte" dei miei sostantivi,
chiedo con sfacciata sicumera: “Scusi, dove
fica il duomo?” Ah, non hai capito? No
problem, te lo ripeto pure: “dove FICA il
duomo?”. Cos'è
quel sorriso deficiente? Il duomo fica da qualche parte, no?
Dov’e’ che fica? Fica, signore, capisci fica, allora, il duomo, dove
fica? Con la
colorita gestualità che anche a noi brasiliani non manca e che sfortuna
vuole rimandi a tutt’altra cosa in Italia, corredo la mia
domanda di gesti equivoci nel vano tentativo di far capire all'ormai
sempre più ilare giornalaio cosa sia un duomo. Allora, mi dici dove fica ‘sto duomo o no? Vi lascio
immaginare il seguito… Nota necessaria:
il verbo stare, in portoghese, si dice
tanto “estar” (como voce esta?) quanto “ficar”, nel senso di luogo:
“onde voce vai ficar” (dove sarai), “fica aqui” (stai qua),
“fiquei parado” (sono rimasto fermo), ecc. E la indecente terza
persona singolare viene, ahimé, usata spesso e volentieri. Beh,
da questo infortunio si riemerge abbastanza presto, ma non si sfugge al
solito amico o amica di passaggio che vengono a farti visita e, in pubblico (a me
è accaduto in
un affollatissimo supermercato), ti gridano inconsapevoli: “FICA aqui un pouquinho que eu vou ali!”
(stai qua un attimo che vado lì). Da evitare,
ripeto, da evitare assolutamente lo scellerato
tentativo di correggere l’amico al volo, come ho fatto io. Come unico risultato
ottieni che lo sventurato ti prende per deficiente e continua a ripetere, sempre
più forte, “fica aì, fica aì, porra, 'tò dizendo pra voce ficar aì”… In un certo senso,
è un bene prendertela sul naso subito, al
primo approccio, questa terza persona singolare... ti fa diventare più prudente, più possibilista. Così,
quando capita il primo “aggancio” in lingua nativa, e quella lì per lì
ti butta un “come sei morbido”, eviti di mollarle un cazzotto. Perché
morbido, in portoghese sta per viscido, doppiogiochista, farabutto. Ecco, essere introdotto da qualcuno col naso già tumefatto
non è male. Se non avete questa fortuna, e per di più vi piace la
spremuta come a me, evitate di chiedere una “laranjada” o un “suco de
laranja”. Nel primo caso, vi daranno un bicchiere d’acqua con gocce
d’arancio, nel secondo una lattina/bottiglia con il succo. Evitare anche
di specificare “naturale”, perché ogni contenitore reca, sull’etichetta, la dicitura “100% naturale”,
e vi prendono per scemi. Evitate anche gli
insulti in lingua nativa. Chiamarli "istronssi" suscita, in genere, un moto
d’ilarità. Meglio fingersi muto e puntare con il dito. A volte
funziona. Bene, a parte queste cosucce come
chiedere il caffè di 406 tipi
diversi, perché se chiedi solo caffé ti arrivano tre-quattro gocce a 2500
gradi, l’impatto con i nativi è esaltante. Chi
dice che abbiamo le donne più belle del mondo, non ha
mai visto Firenze. Uno stillicidio di minigonne, corpetti, calze a rete,
tacchi a spillo, una sfilata permanente. Trucchi a go-go e, quando sono esagerati,
gira pure al largo perché sono americane. Oppure acqua e sapone, sguardi candidi, da
spot. Anche se trasandate sono carine, e vai a capire come facciano. Dal
parrucchiere, secondo me, una capatina al giorno la fanno.
Maschi compresi. Sarà
forse per questo motivo, ma hanno quasi tutte la stessa faccia e questo, dopo un
po’, disturba. Non so spiegare questa sorta di "saturazione"
che ti coglie quando meno te lo aspetti. Mia moglie l’ha
capito solo quando per la prima volta è andata in Brasile. In Italia è come
se tutti abbiano lo
stesso... fenotipo, scusate la parola: i tratti morbidi, gli occhi sporgenti ma
non troppo, la fronte dritta, il viso ovale. Quelli che sui passaporti la
polizia definisce "tratti regolari". Io invece, abituato a un crogiuolo
di teste, menti, occhi, colori e forme di viso tutt'altro che
"regolari", qui mi sentivo un po’
come voi quando osservate i giapponesi: eh sì, avete capito, tutti con la stessa faccia.
Logicamente si evita il più possibile di dire una cosa del genere. Io stesso lo sto dicendo da una
posizione ormai più che sicura. Ma così è. Provate ad andare a
Rio o a Sampa, voi italiani, e vi renderete conto. Tornando al quotidiano, un’altra cosa che devi sistemare
subito sono i contatti. Adesso ero “fermo”, appunto, avevo un cap, un
indirizzo, dovevo mettere al corrente delle mie giornate tutte le
“radici” lasciate indietro… E allora ti affidi al buon telefono.
Ah, meraviglia, senti le voci dei tuoi cari, la tipa che hai
lasciato (o che ti ha lasciato un momento prima che fossi tu a farlo), gli amici,
ecco, un piacere. Svelto però,
che al secondo “come stai, bene” ti sono già volati un deca e mezzo,
che nella contabilità di un viaggiatore equivale a una fortuna! Queste toccate e
fughe sono scandite da un ignobile apparecchietto che gira come un
forsennato. I più li chiamano “conta-scatti”, ma per me erano
elettro-cardiogrammi, o indicatori del livello d’ansia. Ed ecco che, in breve, cominci a girare alla larga
dalle postazioni telefoniche pubbliche. Le guardi da lontano, come un oggetto
proibito, tipo una bella auto o simili.
Paradossalmente, mi ossessionavano i telefoni pubblici
comuni: li provavo tutti nella religiosa speranza di coglierne qualcuno
rotto... quanto basta a farti telefonare senza chiederti vagonate di
gettoni. La stazione centrale era una tappa quotidiana obbligata.
Ce n'era sempre qualcuno che versava in questa sorta di fortunata
disponibilità. E allora, una vera goduria… minuti e minuti a parlare del più
e del meno, a chiedere del cane del cugino dell’amico del tuo vicino, di
argomenti "urgenti" che spaziano dalle quotazioni di borsa alla
politica, dalla cronaca nera a quella rosa. Erano
le volte che m’incazzavo non trovando qualcuno
dall’altra parte: ma come? Dopo tutta la fatica che ho fatto per
telefonarti a sbafo, tu ti permetti di andare a spasso? Allora in genere ci si metteva
d’accordo, e di là dell’Atlantico si mettevano in attesa… di un
guasto. Nelle stazioni, ogni tanto,
arrivavano i tecnici a riparare i telefoni
(bastardi…), e allora ci toccava cercarne altri. E' il momento in cui il
passaparola la fa da padrone.
Quando ti arrivava la notizia della preda in zona (il
telefono rotto), ci si buttava addosso come leoni. E l'affollamento era
immancabile. E
qui, altro fenomeno noto come quello della “coda virtuale”
ante-litteram, quando
internet ancora non si sapeva che cosa fosse.
Nessuno in coda al telefono, per non destare sospetti. Si
rimane a bighellonare nei paraggi, bene attenti a che cosa fanno quelli
prima di te, e controllando chi arriva dopo. Insomma, la fila c'è ma non
si vede, ed è rigidissima. Se però non la vedi o fingi di non vederla,
sono i cazzotti a ricordartene l'esistenza. Prendete
i telefoni grigi, chi li ricorda? Ma sì, quelli decadici, senza tasti
numerici, con la rotellina nella quale infilare il dito per comporre il
numero. Occorreva un filo di rame che facesse il contatto-terra con il ricevitore
della cornetta: ecco il telefono emettere alcuni strani sibili e... bingo!
Da quel momento in poi non esigeva più il gettone per poter telefonare.
Un metodo adatto a provetti "guastatori". Per quelli rossi
attaccati ai muri con inserimento del gettone dall'alto, era necessario
legare quest'ultimo a un filo di
nylon. Qui era il pescatore a dare il meglio di sé. Il problema era azzeccare esattamente il punto di contatto senza
far scivolare il gettone nella scanalatura, altrimenti era un punto di
vantaggio per la Telecom. Altri
invece, evidentemente laureati in chimica, andavano in giro con strane boccette piene di acqua e sale.
Si avvicinavano con dotta cautela al malcapitato terminale versando molto
professionalmente la soluzione idrosalina nella scanalatura insieme a un gettone. Come
facesse il magico intruglio ad andare esattamente dove dovesse per fare
grippare il marchingegno, per me resta ancora un mistero. Naturalmente
vi erano mille altri modi ai quali cui, come in ogni leggenda metropolitana che
si rispetti, non ho mai assistito e che neppure dopo pazienti corsi
accelerati, hanno mai funzionato, effettuati dal sottoscritto. Certo mi
sarebbe piaciuto vedere la faccia dei tecnici che, smontando il telefono, si chiedevano chi
fosse il
deficiente che si divertiva ad affogarli nell'acqua salata... Leggende
metropolitane a parte, le cabine telefoniche hanno costituito il
mio primo contatto con la città medicea e mi hanno permesso di conoscere gente e
di scoprire poco alla volta i trucchetti per campare. In fondo è stata proprio questa, la parte più divertente di
questo viaggio.
(Continua)
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