Il ramo a sud dell'albero dei sax La “escola brasileira de sopro”
rifiorisce nel nuovo millennio
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Mi
piace immaginarlo come un grande albero verdeggiante, sui cui rami sono
appollaiati decine di volatili color ottone che cantano a voce spiegata
mille melodie, al tempo stesso umane e celestiali. Le loro voci si
intrecciano ciascuna con il proprio fraseggio caratteristico, con il
proprio timbro personale, in una sinfonia globale che solo Olivier
Messiaen è riuscito a catturare nei suoi cataloghi orchestrali di
uccelli esotici. E’ l’albero rigoglioso del sassofono, le cui radici
affondano nella musica bandistica, ma con rami lunghi, solidi e nodosi che
si estendono nel dominio del jazz, della musica erudita e popolare. Un
albero i cui semi si perdono nel mito, con i primi suonatori di aulos
- musicisti “d’aria”- (contrapposti ai suonatori di lira –
musicisti “di terra”: i futuri pianisti e chitarristi) che cedono
lentamente il passo alle ance, agli oboi, ai clarinetti. Un albero di cui
troviamo splendida immagine archetipica nelle leggende celtiche,
specialmente nel “Viaggio di St Brendan” del IX secolo, che costituirà
il modello di numerose narrazioni successive: un’infinità di uccelli
armoniosi ricoprono i suoi rami giganteschi e cantano all’unisono salmi
e versetti estatici in ciascuna delle ore canoniche, deliziando l’Isola
del Paradiso raggiunta dal santo esploratore. Dove
inizia il ramo fecondo del sassofono brasiliano? Verso sud, con certezza,
esposto al sole dei tropici ma colpito anche da una brezza boreale. Se ne
sezionassimo il legno potremmo contarne gli anelli, gli strati sovrapposti
che testimoniano della sua relativa anzianità:
sul finire dell’Ottocento lo strumento di successo inventato da
Adolphe Sax si diffonde attraverso gli organici bandistici in tutto il
mondo ed è accolto con entusiasmo anche in Sudamerica. Si tratta dunque
di un ramo autonomo, contemporaneo a quello nordamericano, che nasce dal
comune ceppo europeo ed è da subito immerso in un contesto multirazziale,
che ne segnerà irreversibilmente il suono e la tecnica di emissione. L’inizio,
come è immaginabile, si discosta poco dal modello bandistico, ma a
cavallo del nuovo secolo il grande pioniere mulatto Anacleto de
Medeiros ne fa strumento di battaglia per i suoi innovativi tentativi
orchestrali di natura “indigena” e i primi suonatori di “choro” da
strada lo sperimentano in alternativa a flauto e clarinetto. E' in questo
contesto già “sporco” e popolare che un prestigioso estimatore come Villa-Lobos
lo incontra con curiosità e interesse. Il grande compositore lo utilizzerà
in più di un suo brano di musica da camera (esemplare e’ il “Sestetto
Mistico”, in cui ne esalta le tinte più delicate e cromatiche) e gli
dedicherà addirittura una fantasia orchestrale, più o meno negli stessi
anni del collega Debussy. Ma
il sax brasiliano gia’ vive di vita propria, lontano dalle sale da
concerto. Bande e gruppi di choro intensificano gli scambi, generando una
creatura ibrida, il “coreto”, che lo vede spesso nel ruolo di solista.
E quando il massimo esponente della musica popolare Pixinguinha
giunge a una scelta definitiva, abbandonando nel 1946 l’amato flauto per
l’ancia del sassofono, la consacrazione dello strumento è totale. A
poco valgono le numerose proteste di chi già intuisce che lasciando il
palco al sax l’“influencia do jazz” guadagnerà spazio e vigore nel
mondo sonoro brasiliano, minacciando il carattere nazionale della musica.
Perfino un teorico del meticciato come Gilberto Freyre depreca lo
stile nordamericano, esaltando una artificiosa e inesistente “purezza
del samba”. Ma la strada della contaminazione è ormai tracciata, una
strada ben lontana dal rappresentare una perdita di identità, di storia e
di specificità. Piuttosto un arricchimento lento e costante, che sarà
evidente nelle generazioni successive. Il
sax di Pinzindim marchia comunque a fuoco l’evoluzione della
musica strumentale brasiliana: virtuosismo, il suo senso della melodia e
il suo fraseggio rimarranno un imprinting ineliminabile per
qualunque suonatore carioca, paulista o mineiro. A raccogliere e
perfezionare l’eredità di Pixinguinha sarà immediatamente un gigante
dello strumento, Abel Ferreira. Emerso nelle orchestre di Rio nel
corso degli Anni ’40, il musicista
e compositore mineiro codificherà uno stile inconfondibile,
caratterizzato da un’eleganza sopraffina (un po’ come un Ben
Webster o un Coleman Hawkins), malinconica, languorosa e non
priva di lunghe sequenze improvvisative (appunto il jazz che si fa
strada). E’ la nascita ufficiale della “Escola brasileira de sopro”,
il cui caratteristico linguaggio ha formato quasi tutti i grandi
sassofonisti del dopoguerra, da K-Ximbinho a Paulo Moura a Ze’
Nogueira a Carlos Malta. “Chorando Baixinho” ne è in
qualche modo il trasparente manifesto: parsimonia, concisione e grande
attenzione alla qualità del suono sono i suoi tratti caratteristici. Maturato
dunque nel contesto delle grandi orchestre da ballo carioca (un po’ come
avviene contemporaneamente negli States con le orchestre swing), il sax
brasiliano si rivolge rapidamente alla modernità, prediligendo per
naturale inclinazione il soprano e evolvendosi secondo
linee parallele al cool della West Coast e al be-bop
montante attraverso le sofisticate progressioni armoniche della bossa
nova. E’ un’esplosione di creatività che, come dicevamo,
accentua le affinità con il discorso musicale del Nordamerica.
Sorgono talenti tumultuosi (e da riscoprire perché troppo scarsamente
valorizzati): Mestre Cipò, Moacir Santos, Paulo Moura. Gli
Anni ’60 coronano trionfalmente questa tendenza offrendo un rigoglio di
“combos” esplicitamente jazzistici che continuano ad abbeverarsi
efficacemente alle fonti ritmiche e tradizionali del folklore brasiliano.
E’ il caso, in particolare, dei vari “copas” di J.T. Meirelles,
solista infuocato e insolitamente energico nel panorama nazionale,
recentemente riscoperto e ampiamente ristampato. In
questo scenario si sviluppa e giunge velocemente a maturità il talento di
quello che è da molti considerato il sassofonista jazz brasiliano più
brillante di tutti i tempi, Victor Assis Brasil, un fuoriclasse di
statura immensa purtroppo precocemente scomparso a soli 36 anni nel 1981.
Assis Brasil e’ uno dei pochi esempi di voce maschile ed aggressiva (una
deviazione dalla norma della “Escola de sopro”, tradizionalmente
sensuale, perfezionistica e molto “femminile”), un innovatore con
straordinarie capacità compositive che guadagna da subito l’attenzione
del jazz internazionale, vincendo il titolo di miglior solista al festival
di Berlino. A
cavallo tra gli Anni ’70 e ’80 i sax brasiliani continuano la loro
marcia evolutiva nel rispetto della tradizione, lasciandosi toccare ben
poco dall’ondata dell’elettrificazione. Parziale eccezione il
celebratissimo Leo Gandelman, che indulge eccessivamente in
prodotti patinati e commerciali a dispetto della solida formazione
accademica e l’eccellente tecnica esecutiva, a metà strada tra un Fausto
Papetti carioca e la
fusion più bieca. Nonostante ciò, Gandelman ha prodotto numerosi lavori
e collaborazioni notevoli, affiancato nello stesso periodo da solisti di
vaglia, classici e collaudati, come Nivaldo Ornelas, Mauro
Senise e Ze’ Nogueira, session-men di lusso tuttora in
circolazione. Prima
di inoltrarci più avanti nel ramo, alla ricerca dei germogli più recenti
e promettenti, è giunto il momento di una pausa, di una breve parentesi
di riflessione. Per cercare di capire quali siano queste costanti affinità
e divergenze col jazz nordamericano che continuano ad affiorare a
intervalli regolari nella nostra cronistoria. Uno sguardo d’insieme ci
aiuterà a metterle a fuoco. La prima tendenza che si può facilmente
individuare nel sopro brasileiro è la preferenza per una certa economia
di mezzi nonostante l’abbondanza di ritmi e strutture armoniche. Il sito
leader del jazz brasiliano, “Ejazz”, sintetizza così: “Fuoco della
musica generalmente ben definito. Fraseggio incisivo. Accompagnamenti
economici. Armonia concentrata ma di grande effetto”. Non ci sono
barocchismi in questi fiati che parlano all’anima con profonda intensità
emotiva. D’altronde,
come già espressamente notato, è pervasiva una sensibilità tipicamente
“femminile”, nel modo di legare le note, nelle pause, nelle
appoggiature. Pochi, per capirci, sono i John Coltrane, i Sonny
Rollins, i David Murray della musica strumentale brasiliana.
Anche un solista come Gato Barbieri, in un ramo parallelo del
grande albero che volge sempre a meridione, è distante anni luce dal
modello. Effetto della maggiore armonizzazione della coscienza nera
all’interno del panorama musicale nazionale? Oppure, al contrario, segno
di emarginazione di quella componente africana che spinge i sax
statunitensi a strillare, gorgogliare, graffiare con violenza? Segno di
predilezione ineliminabile per l’accademismo occidentale e la sua solida
storia che nonostante tutto fa ancora da collante nello spirito
brasiliano, dopo secoli di barocco portoghese e di musica da “salão”
intrisa di melodramma italiano? Difficile dirlo. Resta il fatto che il
sassofono rimane una voce centrale della musica nazionale (molto più che
qui in Italia), in particolare il sax soprano, al fianco di chitarra,
violoncello, percussioni, piano e canto umano. Ed
eccoci giunti alla punta del ramo, mentre gli uccelli color ottone
continuano a cantare a gola spiegata il loro canto lirico e ammaliante,
dalle tonalità quasi umane. Facendoci strada tra i germogli troviamo
molti sassofoni interessanti, alcuni addirittura entusiasmanti. Carlos
Malta è il primo della lista. I suoi album sono tutti smaglianti,
eclettici e sommamente fantasiosi. Il suo virtuosismo, frutto della lunga
militanza nelle formazioni di Hermeto Pascoal, è fuori
discussione. I recenti “Pixinguinha – Alma e corpo” e “Tudo Coreto”
(che con tutta evidenzia chiude un cerchio storico) si possono
tranquillamente catalogare come capolavori assoluti. Ma c’e’ molto
altro di promettente. Il brillante fraseggio di Mané Silveira, per
esempio, o la solida maestria di Teco Cardoso e Mario Seve,
l’emergente grinta di Raul Mascarenhas, la classe paulista di Nailor
Proveta, l’inesausta creatività di Paulo Moura, che a
settant’anni passati suona ancora fresco e geniale come solo i grandi
sanno essere. C’e’ di che stare tranquilli e fiduciosi: l’albero
continuerà a crescere. Potremo deliziarci all’ombra delle sue fronde,
battendo il tempo e seguendo le curve di mille melodie caleidoscopiche,
per molto tempo a venire.
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