Quel
bar-garage che illuminava le notti fiorentine...
"Subiu na construçao como se fosse magico..."
Beh, prima o poi doveva succedere... Dallo spirito infantile che avevo al mio arrivo,
che mi faceva vedere tutto "lindo" e meraviglioso, a quello adolescenziale dei primi
contatti, questo mio percorso iniziatico giungeva, alla fine, alla prova di maturità: il lavoro. Finora me l'ero cavata con lavoretti
svolti qua e là proponendomi a seconda dei casi e delle opportunità
nelle vesti più disparate: raccoglitore di olive, venditore di bikini brasiliani, maestro di nuoto
(questo in particolare l'ho svolto in Marocco e meriterebbe un capitolo a
parte): furberie varie che mi bastavano per continuare il viaggio. Ora
invece c'erano l'affitto, la spesa, i vestiti (che dopo un anno e mezzo di
usura solo io riuscivo a chiamare così), ma sopratutto il profilo piuttosto anoressico del mio portafoglio
che mi suggerivano senza possibilità di equivoco che dovevo trovare un lavoro
"serio". E in fretta.
Beh, l'unico lavoro "serio" che ciascuno può svolgere è... il proprio.
Di ciò ero convinto. Ma riprenderlo mi dispiaceva, e non poco. Mi spiego meglio:
in Brasile, quando maturava in me la voglia di iniziare questo viaggio, non è che me la passassi male, anzi. Avevo un
buon lavoro - quello di sistemista informatico presso una nota banca di São
Paulo -, una bella ragazza, abitavo per conto mio e avevo abbastanza soldi per permettermi
auto, moto, e serate... necessarie a utilizzarle. Un randa con i soldi, ecco il fenotipo.
Uno stile di vita comodissimo, insomma. Fino al momento in cui ho cominciato a vedere la gente che aveva quindici, vent'anni d'anzianità
aziendale recarsi a lavorare sempre allo stesso posto, nello stesso ufficio,
e quasi sempre con lo stesso pregare ogni santo mattino, che arrivasse in fretta il pomeriggio.
Il futuro prefigurato in quel modo ha cominciato a essermi stretto, e con un pizzico di occasione giusta e una tonnellata di "adesso o mai più" mi sono buttato
nell'impresa di abbandonare tutto e ricominciare daccapo. E ora la
prospettiva di riprendere il lavoro che avevo lasciato mi sembrava come
di tradirla, questa l'impresa. Ma il pudore è durato circa venti, trenta
secondi e poi, come diceva Troisi, mica debbo ricominciare da zero: va bene giocare in trasferta, ma il gioco è
sempre quello, in fondo no?
E
invece no! A complicare un po' le cose c'era una piccola parola: residenza. Un concetto piuttosto
azzeccato a cui tutto si ricollega e tutto, ma proprio tutto, in Italia, dipende da
esso: senza la residenza non puoi avere la carta di identità, e se ti
manca quest'utilma non hai neppure il codice fiscale e nemmeno il libretto
sanitario e figuriamoci quello di lavoro, per cui... niente lavoro "serio".
Sulle - chiamiamole traversìe - per avere la residenza vi ho già
raccontato due puntate fa e non mi dilungo più di tanto. Averla era praticamente impossibile. Restava il lavoro
nero. Ed eccomi a impersonificare quel detto che avverte: "attento a cosa chiedi, potresti
ottenerlo". Nel viaggiare per l'Europa mi dispiaceva l'essere spesso "discriminato" rispetto ai miei
compatrioti durante i controlli doganali, a causa del mio passaporto italiano
(vedi seconda puntata). Eccomi pertanto soddisfatto: ero finalmente parificato a tutti gli altri "irregolari".
Beh, la prima constatazione è che nel mio campo non vi sia poi molto
lavoro nero. Anzi, non ce n'e' proprio. Per cui, eliminata l'unica cosa che sapevo fare, ero nella singolare posizione di chi non sa fare
niente. Una vera fortuna: avrei potuto diventare qualsiasi cosa! Esaltante come possibilità, angosciante alle prime domandine noiose tipo "cosa" o
"come". E, anche qui, la schiera di amici più o meno tumefatti
a seguito di ciò che ha loro riservato il destino, è preziosa. Nella fase dei contatti, a meno di voler essere proprio completamente
ciechi, è impossibile non conoscere qualcuno che la strada del precariato
già non l'abbia imboccata. Tenerseli stretti: ecco il primo trucco.
E così, tramite il tam tam effettuato dagli apparecchi telefonici "compiacenti"
di cui vi ho già accennato, ecco le voci sui lavori disponibili. Così cominci a familiarizzare con
mansioni tipo lavapiatti, aiuto-camera, pulizia bagni, e rispettive valutazioni monetarie. Dalle
cui rilevanze tiri subito due conclusioni. La prima: i tuoi piani
dovranno essere ridimensionati, al ribasso. E di parecchio. La seconda: o ti fai furbo, o ti fai venire un'insopportabile
nostalgia della casa di mamma e papà. Perché lo capisci subito, se la voce sul lavoro è arrivata anche a
te, se hai davvero avuto la fortuna di fare parte del famoso "giro giusto"
oppure troverai metà città in coda per averlo. E io facevo quasi sempre parte di
coloro che arrivano un po' troppo tardi. Con la "insopportabile nostalgia" sempre in agguato, ti tocca andare alla fonte delle
tue informazioni. I giornali con gli annunci li deve prendere appena
escono, per cui cominci giocoforza a prendere confidenza con la notte. Se non altro per aspettare piacevolmente l'apertura del giornalaio.
Beh, dovevo cominciare pure da qualcosa, e allora l'annuncio "Baby-sitter cercasi - anche uomo" non mi dispiaceva.
L'annuncio corrispondeva a una bellissima casa, nel centro di Firenze, di quelle con mille stanze riunite e
poi separate nei secoli, che solo dio sa che geometria avesse assunto. A corredo c'era una signora con occhi diffidenti, seguita da un'altra decisamente più amichevole. Piacere, piacere, sì, brasiliano, anche se non sembra. Lavi i piatti? Li lavo. Fai i letti? Li faccio. All'occorrenza, li costruisco anche. Stira? Stiro. Ammira? Se concesso.
Ok, assunto. Evvaaai! Qualche giornata a pulire la tavola, stendere i panni, stirare la roba, portare il pargoletto a scuola. Tutto sotto l'occhio vigile della signora diffidente. Tutto
sommato me la cavo, diventa un po' più socievole. Fare il letto era, però, un
dramma, nel senso che in camera c'era un unico lett, chiamiamolo
matromoniale, che occupava... tutto il pavimento. Un enorme materasso che
ingombrava tutta la stanza, dove dormivano marito, figlio, moglie e...
altra "moglie". Il momento cucina era il più leggero, forse perché le due
donne proprio non sapevano rimanere con le mani in mano. Si socializzava e
fu un peccato, perché al marito la cosa non andava e mi mandava in cortile a
riordinare i ritagli di giornale. In pratica l'uomo (credo facesse lo scrittore)
segnava con un pennarello i titoli degli articoli che riteneva dovesse leggere, e li metteva da parte. Io dovevo prenderli, ritagliarli e classificarli. Da baby sitter a
segretario! Non male, a parte il fatto che dovevo classificare quattro anni di
giornale e, dovendo pure leggerli, già che c'ero finivo per leggere anche gli articoli non segnalati, per cui il rendimento era abbondantemente scarso.
E dopo qualche socializzazione di troppo, eccomi ancora a cercare lavoro. Con un mesetto in tasca, però.
Attacco allora con i ristoranti. Senza il libretto sanitario (ah,
residenza!) era inutile aspirare a un posto in prima linea, e allora giù,
nelle retrovie, a sistemare i piatti. Che porcaputtana non fai in tempo a metterli in lavastoviglie che
ne arrivano il doppio ancora più sporchi. E meno male che ci sono altri
"colleghi" per i coltelli, le friggitrici e altre cosucce del genere.
Se ti fermi un attimo, eccoli attingere alla scorta piatti, per cui ti tocca
lavorarne il doppio in metà tempo. Senza contare che chiunque, credo, abbia lavorato
nella cucina di un ristorante preferisce cucinare in proprio. Non a caso si dice che solo il cuoco sa cosa succede in cucina. E' uno di quei momenti in cui ti convinci che hai studiato tutta la vita la cosa sbagliata. Perché ti senti proprio un deficiente,
un imbranato. Alla quarta pila di piatti andati per terra perché non hai
imboccato lo specchio della porta, te la indicano chiedendosi se sia giusto
o meno lasciarti andare via con le gambe intatte. In albergo non va meglio, perché ti presenti sì per rifare le camere, ti prendono sì per rifare le camere, ma siccome sei l'ultimo arrivato,
ti sbattono a pulire i cessi. E allora hai due alternative: o fai il galletto e ti mangiano arrosto, o fai di necessità virtù e ti toccheranno i cessi a vita. In ogni caso l'unica
via d'uscita, è l'uscita. Ma non senza prima far conoscere al proprietario che ti vuole dare solo un decimo del
pattuito le tue gentilissime considerazioni sul suo conto.
Durante l'ormai abituale (e quasi giornaliera) attesa dell'arrivo della Pulce in edicola, altri lavoretti più o meno strani
saltavano fuori. Cercavano qualcuno esperto in cavalli che si prendesse cura della stalla. Beh, presentarsi non
nuoce e, con mia sorpresa, mi prendono pure. Pulire la stalla, portare il fieno, l'avena, spazzolare il cavallo. Alla prova dei fatti mi trovo davanti due oggetti
strani: il cavallo che vedo chiedersi di che razza sono, e il pargoletto del padrone che si fa la stessa domanda. Ed è una "benedizione", perché il pedantucolo ha la mania
di rimbrottarmi e insegnarmi come si fa ogni volta che inizio a fare
qualcosa. Dopo una settimana il padrone si accorge che per me un cavallo e un monumento sono pressoché identici, e mi manda a casa. Con un extra per aver finalmente fatto lavorare il
pedantucolo.
Un altro "padrone" che non mi aspettavo era un marocchino, sub-sub titolare di una bancarella al mercato di San Giovanni. Il lavoro
consisteva nell'andare verso le cinque del mattino al garage dove era stipata la bancarella, trascinarla fino
in piazza e aspettare i marocchini che arrivassero, verso le sei. Facile, non
fosse che per spingere la maledetta baracca occorrevano cinque o sei
persone.
E visto che la fatica non mi ha mai spaventato, andiamo anche a scaricare i camion al mercato. Qui,
grazie alla mia dea fortuna onnipresente, dopo un paio di sacchi presi in modo
da slogarmi permanentemente la spalla, i veri scaricatori mi "convincono" a
farmi da parte, a prendere giusto quei due giorni di paga e a
togliermi dalle scatole.
Beh, chi a São Paulo arrivava in condizioni simili alle mie finiva prima o poi
nel ramo edilizio. Diamine, ci sarà anche a Firenze. E infatti c'era. Vado a Sesto Fiorentino dove imparo a mie spese che tirare su un muro non è mica roba da poco.
Cavolo: un mattone accanto all'altro, poi sopra, come nei disegni da bambini, che ci vuole? Ci vuole, eccome. Debbo dire che ho sempre avuto la fortuna sfacciata di trovare sempre qualcuno che s'impietosiva del mio naturale imbranamento e mi spiegava le cose. Certo ci sono cose che non si spiegano.
Buttare giù il muro? E che ci vuole? Ecco il martello pneumatico. Immaginate la scena: nonostante la spavalderia, sono mingherlino, e tanto. Con quel martello ho quasi combinato una strage. Torno al
mio muro e capisco che ci vuole mestiere anche lì, e tanto, accidenti. Questa considerazione, oltre
a obbligarmi a una buona dose di giusta umiltà, serve poco a consolarmi del non essere riuscito a
costruire un muro dritto, che fosse uno. Ma intanto mangiavo, e il momento del dolce era mitico: pane
fiorentino, senza sale, imbevuto nel vino dopo averci messo sopra
un'abbondante cucchiaiata di zucchero. E' una delle delizie che ricordo più volentieri. Alla faccia del fastidio per gli
extra-comunitari: mi hanno accolto come il figlioccio che, ok, è un po'
imbranatello, ma prima o poi ce la fa. La cosa sarebbe andata avanti, perché se non fai il fighetto qualcosa da fare c'e' sempre, non fosse che prima o poi arrivano i controlli e chi non è in regola deve svignarsela. Il che, a distanza di anni, non può non trovarmi d'accordo: se mi succedeva qualcosa, non avevo nessuna assicurazione nè modo di curarmi. Ma allora non ci pensavo.
Beh, non tutti sono dolori. Mi capita di andare a vendere il tè freddo allo stadio.
Lavoro trovato sempre con il passa-parola. C'e' la partita, andiamo che troviamo da fare. Mi danno uno strano zaino in vetroresina tutto colorato, che,
indossatolo, mi fa sembrare un soldato in procinto di partire per la guerra. Il rubinetto, di quelli a pressione tipo seltz, pende come una lancia dalla spalla destra, e la torre di bicchieri pende dalla sinistra. Evvaai, così, all'assalto
della folla, vi distruggo tutti! Allora... chiunque sia stato in uno stadio gremito, in particolare in curva, sa cosa vuol dire muoversi tra la gente seduta, immaginate travestito da
paracadutista. Ma questa era la missione, e bisognava rispettarla. La prima va abbastanza
male: rovescio il tè ghiacciato sulla zucca di un signore che mostra di
non gradire. Buttava male, e ho tentennato quando mi hanno chiamato per la seconda. Dopo un primo tempo insofferente, ho capito finalmente che bisogna entrare nello spirito. Diamine, ero andato diverse volte allo stadio. Ed ecco che al secondo tempo, ogni volta che la curva dov'ero faceva festa, facevo festa anch'io. Innaffiavo tutti con il the freddo: questi aprivano direttamente la bocca, altro che bicchieri. Un paio di volta ho anche rotolato, zaino compreso, per
poi essere "messo in piedi" due-tre gradini più in basso. Una festa
insomma, ormai ero un personaggio e, diamine, mi divertivo da matti anch'io.
Sbatti di qui, sbatti di là, ecco un'argentina che gestisce un club privè (formula
non solo fiorentina per gestire i locali senza pagare le tasse) che ha bisogno di un barista. Il libretto? Il mestiere?
Faccio come sempre, ed eccomi a preparare caipirinha in quantità
industriali. O quasi, perché lei le preparava addirittura già col limone
schiacciato e mancava solo il ghiaccio. Dopo averle fatto capire perché
così alla gente non piaceva tanto, sulla catena di montaggio rimangono solo i limoni tagliati, Un corridoio stretto, una decina di tavoli, il bancone in fondo,
ecco il club privé: un garage tirato a lucido. Ma apriva alle 22 fino alle
3, alle 4, a volte anche alle 5 del mattino. Per cui era un punto d'incontro di tutti i randagi della città e dintorni. E, dopo aver letto un paio di libri su come preparare i cocktail (credo
di essere stato l'unico barista astemio della storia...), ecco il famoso colpo di
culo: fare il barman in uno dei localini in di Firenze. In un certo senso divento il
confessore dei miei clienti: per la modica cifra relativa a tre/quattro negroni o cinque/sei caipirinha al
bancone, hanno il diritto di raccontare tutte le loro magagne e ascoltare
tutti i miei consigli. E la cosa funziona.
Ad un certo punto, però, rimango senza casa. Capita. E "vinco" un posto letto
presso uno studio nel quale facevano maschere per la commedia dell'arte.
Fantastico! Posto letto con corso artigiano incorporato. Ed ecco avviarmi
verso mestieri neanche immaginati soltanto qualche mese prima.
Una sera che il club chiudeva quasi alle sei, trovo una chitarra buttata su un cassonetto. La prendo,
e uno degli abitué nota la cosa e mi chiede cosa mai potrei fare con una chitarra in quello stato. Al mio racconto lacrimoso
sul tempo immemorabile trascorso dall'ultima volta che avevo preso in mano
una chitarra, scopro che lui, una volta, faceva il liutaio. La prende, la sistema, me la regala: a tutt'oggi chi la
suona ne nota il timbro eccezionale. Tutto questo per dire che, in questo garage messo a lume delle notti fiorentine, comincio anche a suonare. E, anche qui, la cosa funziona.
Chi si ricorda più del libretto di lavoro? Il barettino mi sblocca una
miriade di possibilità (per le quali la mia brasilianità aiuta, eccome),
una più divertente dell'altra.
A fine gennaio, in vicinanza del carnevale, un ballerino brasiliano mi
invita a organizzare insieme a lui la festa di carnevale di una grossa discoteca nel centro di Firenze.
Abbiamo i soldi, dice, possiamo sbizzarrirci. E ci sbizzarriamo: come prima cosa andiamo a cercare i
percussionisti: una scuola di samba s'ha da fare, o no? Nel giro di una settimana ci troviamo a fare le selezioni, noi che eravamo preoccupati di non trovare nessuno. E le mulatas? Ma che dici, proprio noi dobbiamo fare il Brasil tutto culo e mulatas? Beh,
in fondo sono solo italiane. Ed ecco che alla sua accademia fioccano le
inscrizioni per il corso di ballo. E poi siamo riusciti a trovare anche quattro
mulatas. Carine? Bellissime. Italiane, anche loro, ma non si direbbe. Ecco: la serata la si può fare, trovato anche il DJ per animare il tutto. Ma manca qualcosa, manca il momento clou, il richiamo originale…
Pensa di qui, pensa di là, qualcuno propone la sfilata, il "trio
eletrico". Che? Vedete, il bello di queste cose è che nessuna idea è assurda, a priori. A volte sono lì, cercano un'uscita, e quando la trovano, è un fiume in piena. E allora andiamo una domenica in duomo e affittiamo tre carri con i cavalli, di quelli che i turisti usano per fare il giretto di Firenze. Dopo un po' tutti gli abituè del
bar-garage sono coinvolti, e i nuovi che arrivano si stupiscono un po' a vedere questa armata brancaleone che discute animatamente su piume e paiette. La cosa prende un piede che ci spaventa, chi la controlla più? E
allora dai, gli annunci su La Nazione, i permessi per le strade, il percorso concordato,
é un evento! E chi ci ha pensato a tutti ‘sti dettagli? Boh...
Giunti al grande giorno, partiamo con una fiumana di gente in costume che
si accalca sui marciapiedi. Fa un freddo cane, ho una paura che mi blocca la gola, e adesso? Mah,
così com'e' nata, andrà da sola. Il primo carro parte senza preavviso, gli altri lo seguono, la batteria comincia a martellare e le "mulatas" "botam pra quebrar".
Vaiiii!!! La gente sui marciapiedi è oramai una folla, tutti in costume (fino al collo, ma che
vuoi farci, Firenze non è mica Rio: fa un freddo cane), è una festa. Ma... nessuno ci segue... o, almeno, molto pochi, rispetto a quelli che aspettavamo. Ueh, dobbiamo portarvi tutti in discoteca, altrimenti chi
li vede, i soldi? Allora il ballerino brasiliano diventa il generale della banda, ferma il corteo, incita la gente, ci fa inseguire,
arriva anche un megafono non si sa da dove. E allora canto, incito, urlo al megafono, e non sono più io, che in coscienza non avrei mai fatto una cosa del genere, ma in quei momenti ti “scende il santo” in quei modi che non ti ricordi neanche più che cosa hai fatto.
Alla fine il trio eletrico sfila per Firenze, e in ogni via che attraversa
è un evento. Quasi tutti vanno a fare altro appena passiamo, per cui mi chiedo un po’ interdetto
come si comporterebbero, se capitassero a Salvador, al passaggio dei veri trio
eletrico. Ma trascinando un po’ di gente acchiappata qua e là, la discoteca si riempie,
e la serata alla fine è fatta. E adesso? Adesso niente, ci si saluta come ci si è incontrati, novelli flautisti di hamelin, ognuno per la propria strada. La si racconterà al
bar o, al limite, ai nipotini...
Ma ormai siamo famosi. Ed eccomi aiuto fotografo al Pitti, modelle che solo la madonna... E chi ci capisce di fotografia? Al carnevale di Venezia (magnifico) ci si va con una borsa da trucco, una faccia
bene sistemata, ed eccoci a truccare i turisti a Venezia. Io, turista doc, fotografato come una delle attrazioni locali…
Ma ormai mi ero messo in testa di voler ricominciare a suonare, per cui la chitarra cominciava ad essere la vera compagna. E, meravigliato,
ho scoperto che lei valeva più del mio Inter-Rail, e cominciava a portarmi in giro per lo
stivale.
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