INCONTRI

«Superiamo i luoghi comuni sul Brasile»

Conversazione con Paolo Argentini, autore dello speciale tv
"Il sogno brasilero" recentemente trasmesso da La7

 

di Fabio Germinario 

    Il 29 gennaio scorso La 7 TV ha trasmesso uno speciale dedicato al Brasile intitolato "Il sogno Brasileiro". Abbiamo chiesto a Paolo Argentini, inviato della rete televisiva e autore del programma, di spiegarcene le motivazioni e un suo giudizio personale sul Brasile attuale.

Come è nata l'idea di questo speciale tv? E dato che il titolo era "Il sogno brasileiro", lo spunto è venuto dall'elezione del nuovo presidente Lula, oppure da altri motivi?

«Il sogno brasileiro ognuno lo vive e lo interpreta come crede. Girando questo speciale mi sono accorto che ognuno ha la sua interpretazione
della parola speranza. Per molti la speranza è legata soprattutto al nuovo governo, ma più in generale ho sentito una buona atmosfera in Brasile: di ottimismo, di fiducia nei confronti del futuro, nonostante tutto. Questo mi sembra un valore in sé, sorprendente per chi arriva da un'Europa ottenebrata dalla paura, per la quale il futuro è lo sconosciuto che ti minaccia più che un amico portatore di vita e di opportunità. Parlare di sogno brasileiro, è stato dunque per me, innanzitutto, un modo di rappresentare questa capacità di "credere" nel futuro senza pensare specificamente alle attese suscitate dal nuovo governo. Anche se è indubbio, ripeto, che esistono grandissime aspettative nei confronti del nuovo presidente».

Prima di girare questo servizio lei si era già recato in Brasile?

«Sì, la mia storia con il Brasile è molto lunga, perché ci sono arrivato più di vent'anni fa. Là mi sono sposato, ho vissuto, ho avuto una figlia e ho fatto la spola con l'Italia per vari anni. Me ne occupo anche professionalmente da vent'anni. Ricordo di Lula sin dai tempi in cui per lavoro andavo tutti i giorni a San Bernardo do Campo tra l'80 e l'81 quando c'erano gli scioperi nella ABC di San Paolo. Vederlo presidente è stata un'emozione fortissima».

Ma questa atmosfera, questa sensazione di fiducia che ha avvertito trova secondo lei una giustificazione concreta nella realtà dei fatti?

«In qualche modo si giustifica da sola perché un paese che spera possiede già una marcia in più rispetto ad altri colti dalla rassegnazione. Di questo sono convinto. Il che non significa che la speranza sia di per sé una assicurazione sul futuro, o una garanzia di vittoria. E' una dimensione
in più che può migliorare la vita quotidiana e anche a quella politica di un paese. E questo è stato anche uno dei grandi meriti di Lula: riuscire a resuscitare o ridare smalto a un sentire nazionale che sicuramente mancava con i governi precedenti. Una cosa che spesso si dice in Brasile, che ho sentito dire a moltissimi è: lui è uno di noi. Non era mai accaduto prima. Chi sedeva nei palazzi della presidenza era sempre qualcun altro rispetto alla gran parte dei brasiliani: era il grande proprietario terriero, era il generale, era qualcuno al di fuori della vita quotidiana. Per la prima volta gli elettori vedono uno di loro ricoprire la carica più importante delle istituzioni e questo istintivamente e comprensibilmente crea quasi un clima euforico che è importantissimo, ma che tuttavia non è sufficiente ad aprire strade che comunque rimangono molto difficili da percorrere».

Lula non ha tuttavia i numeri sufficienti, in parlamento, per poter mantenere fede alle promesse che ha fatto soprattutto all'ala più oltranzista, quella più a sinistra del suo partito e anche a movimenti come quello dei Sem Terra che pure sono stati determinanti alla sua affermazione politica. Come riuscirà a superare questa contraddizione?

«Io credo che le prime mosse di Lula siano state di grande intelligenza e di grande saggezza. Prendiamo in considerazione la stessa visita fatta a Bush, negli Stati Uniti, che in un certo immaginario collettivo anche in Brasile rappresenta il nemico pubblico numero uno. E la prima decisione di Lula è quella di parlare , trovando un contatto anche umano , con un personaggio
che è comunque un interlocutore; Lula ha trovato un modo semplice e diretto per chiarire nei fatti che il Brasile non può staccarsi dal resto mondo, ma che allo stesso tempo non può accettare una politica di subordinazione... Voglio dire che il governo Lula si muove alla ricerca di un equilibrio molto difficile da trovare, ma questo è un problema comune a tutti i paesi, soprattutto a quelli del così detto "Terzo Mondo". Le fughe verso un impossibile ritorno a forme di assurda autarchia o di protezionismo sarebbero folli, tanto più per un paese-continente come il Brasile che da sempre vive di globalizzazione, un paese di emigranti. D'altra parte, il nuovo governo si prepara a respingere , giustamente, le imposizioni che in passato ha dovuto subire. La via di uscita deve essere trovata e mi sembra che nessuna abbia formule magiche a disposizione. In questo senso Lula è all'avanguardia e l'America latina guarda a lui con grandissima speranza. Basta vedere i sondaggi: in Argentina, per esempio, hanno chiesto a un certo numero di persone: sarebbe disposto ad appoggiare una candidatura di Lula alle elezioni presidenziali? La maggioranza ha risposto sì... ovviamente in una chiave di lettura paradossale. Però è interessante pensare che, per la prima volta, un paese che il luogo comune vede in genere contrapposto al Brasile, guarda oggi a quest'ultimo con speranza. Si potrebbe aprire una strada di grandissimo interesse per tutta la regione ...».

Torniamo per un momento all'Italia e ai luoghi comuni mediante i quali spesso il Brasile viene rappresentato da alcuni organi d'informazione. Qual è secondo lei il motivo per cui difficilmente si riesce a uscire da questi stereotipi, e quale, a suo parere, il modo per poterlo fare concretamente?

«Gli stereotipi esistono sempre, e il Brasile ha la particolarità di godere di stereotipi positivi, il che non capita con tutti i paesi. Se li merita tutti, perché è uno dei paesi più accoglienti del mondo. Però sempre di stereotipi si tratta; per cui immaginare che un paese sia fatto di
balli, sole, spiagge è semplicemente un modo di declinare la propria ignoranza. Siamo tutti ignoranti, ognuno lo è a modo suo. I luoghi comuni possono comunque avere una loro valenza positiva, è anche un modo che permette a popoli e paesi di comunicare tra loro. Non tutti gli italiani che vanno a migliaia in Brasile hanno in mente la situazione sociale, economica o le problematiche brasiliane. Ci vanno perché il paese è loro simpatico... Voglio dire che di luoghi comuni si può anche vivere, si può anche comunicare basandosi su di essi. Poi si tratta di non fermarsi a quel punto. Come fare a superarli? Nel mio piccolo, nel mio ambito professionale, quello che cerco di fare quando viaggio è raccontare ciò che vedo, non parlare di ciò che non conosco, di ciò che non posso dimostrare o di cui non ho avuto esperienza diretta. Secondo me questo è uno degli antidoti per i giornalisti contro il rischio di alimentare i luoghi comuni: parlare delle cose che si vedono e avere delle testimonianze affidabili».

E lei, anche basandosi sulla sua assidua frequentazione con il Brasile, come lo ha visto ultimamente: è realmente così cambiato, e tanto da meritarsi fama, attenzioni e aspettative da parte di chi ormai lo dipinge quasi come un paese modello?

«Questa è la parte più difficile, la stessa sulla quale io ho costruito lo speciale TV. Capisco che un brasiliano che vede un programma come quello che ho fatto possa pensare che è la solita cosa sulla violenza. Mi viene voglia di conoscere però chi muove queste critiche per capire quale sia la relazione tra il tipo di critica e la persona che la muove. Personalmente ho cercato di andare a conoscere una parte del Brasile che è stata fino ad ora la parte in ombra, che trovo di straordinario interesse e che oggi non può più venire nascosta. I brasiliani cominciano ad accorgersi di qualcosa che diventa, secondo me, a questo punto fondamentale. E' che il paese non può continuare a svilupparsi,né economicamente, né culturalmente, né da nessun punto di vista sulla base di una omissione, di una esclusione di quasi un terzo della popolazione, e quindi parlare delle favelas non è parlare solo di un luogo comune. Oggi sono i brasiliani stessi i primi a voler parlare di favelas, sono i primi ad andare a vedere i film che parlano delle favelas. Ve ne è una serie, di questi film, che fa successo perché questo è un problema importante, non è tanto per denunciare il degrado, ma è per capire cosa c'è lì dentro. Nelle favelas ho conosciuto gente splendida, musicisti, persone veramente meravigliose, quel docente universitario che ho intervistato che mi parlava con trasporto della sua esperienza ormai quasi decennale di un grande movimento come "Viva Rio", del suo lavoro nelle favelas. Forse è proprio da lì che si apre la vera via d'uscita: superare le contraddizioni tra il Brasile delle favelas e quello degli uffici del turismo,  cosa facile a dirsi, difficilissima da realizzare. E' questo, a mio parere, il punto d'arrivo: integrare le tante realtà, i tanti "Brasil". E' su questo punto che dobbiamo lavorare tutti: i giornalisti, ma anche chiunque si occupa della comunicazione, chiunque ama questo paese".