Benjamim
è un libro che mi ha messo paura e disagio, per tanti motivi. Prima
ancora di leggerlo, per timore reverenziale verso il suo autore, Chico
Buarque. Appena cominciato, perché non riuscivo a stare dietro alla
trama, persa in minuziose descrizioni di dettagli apparentemente futili. A
metà libro, perché non mi ricordavo più come fosse cominciato... e alla
fine, perché dopo aver trovato una chiave di lettura, mi sono accorta che
ero di fronte a una porta spalancata, senza serrature. Che me ne facevo
della chiave? Avevo cominciato a leggerlo mesi fa, al mare, luogo ideale
per scoprire la scrittura di Chico Buarque, pensavo. La
copertina dell'edizione italiana è molto attraente: un fiore rosso di
Anthurium su sfondo nero. In realtà, la copertina depista, come tutte le
mie aspettative su questo libro. Molto più opportuna quella dell'edizione
originale: un collage di foto in biancoazzurro e nero che ritraggono un
uomo di mezza età, in giacca e cravatta, in varie pose e dettagli del suo
abbigliamento, perfino dell'orologio, uno dei temi che tornano nel
libro.Benjamim mette paura perché non c'è un solo dialogo in 165 pagine.
Eccetto uno, quello di un film in televisione. E lo stile della scrittura,
ossessivo, riflette perfettamente il mondo ritratto. Sono riportati i
pensieri dei personaggi, che vivono buona parte del tempo nella loro
testa, immaginando, ritenendo che, ricordando, aspettando, calcolando,
camuffandosi, sognando, preparandosi per; cominciando a scrivere lettere
subito stracciate, guardandosi allo specchio, e mai che compaia la voglia
o l'impulso di uno scambio di idee, di una conversazione. Ma non si tratta
solo di solitudine. E’ che siamo entrati nel regno dell'immagine, dove
anche se non si sa cosa fare della propria vita, si sa benissimo quale
cravatta si intona meglio con la giacca. L'apparenza, il denaro,
l'esteriorità, la marca dell'auto, il tipo di casa sono i veri compagni
di questi uomini e donne e del loro vuoto terribile, ora che si sono
staccati da un passato scomodo, da qualche avvenimento dell'infanzia che
li ha segnati, dai ricordi che hanno seppellito insieme alle madri. Ognuno
ha il suo personale buco nell'anima, ognuno forse sta cercando di
riempirlo muovendosi in un mondo di finzione o di rappresentazione fasulla
di sé. Ognuno si crea la propria realtà, inventandosela, o cambiandosi
nome, o evitando scomodi confronti, pur di lasciare intatta un'illusione.
Qua e là, violenza sotterranea, povertà, polizia, razzismo, qualche
furto, arresto, ma come
se niente fosse. Se si prendono questi elementi e li si mischia,
sovrapponendoli, incastrandoli, e si crea un vortice, anche temporale, e
ci si chiama Chico Buarque, ecco che nasce Benjamim. Mette davvero
disagio, questo libro, perché sfugge a ogni controllo: ci fa entrare in
una spirale di eventi concatenati che catturano l'attenzione e ci
distraggono da indizi importantissimi, e ci confondono. Al punto che non
so dire se questa falsa vita dei protagonisti sia una inevitabile tecnica
di sopravvivenza appresa dopo un tremendo dolore, o sia solo vuoto; se
questa narrazione è il riflesso di un mondo che sta precipitando, o è il
delirio personale di Benjamim; se quelle illusioni che a me sembrano
insensate, in fondo non siano parenti strette delle mie; se la mancanza
del senso di realtà nei protagonisti derivi dal fatto che la realtà non
ha mai molto senso; se Benjamim evita di dire la verità su di sé perché
a nessuno importa; se in quell'universo descritto esisteva davvero
un'alternativa.
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