IL BRASILE IN ITALIA "Ho imparato il sorriso da Jorge, Chico e Vinicius" Intervista a Gianni Minà, direttore della rivista "Latinoamerica"
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Gianni Minà, giornalista e scrittore,
non ha certo bisogno di presentazioni avendo realizzato in quarant'anni di carriera centinaia di reportage, programmi e interviste con alcune delle più grandi personalità del nostro tempo. Tra i più importanti giornalisti italiani e collaboratore di numerose testate, è
attuale direttore editoriale della rivista trimestrale "Latinoamerica e tutti i Sud del mondo". Parlare
solo di Brasile, con lui, sarebbe riduttivo, considerato lo spessore del personaggio, la passione per svariati temi e l'impegno
con cui continua a svolgere il proprio lavoro. Dal canto nostro non possiamo
però dimenticare che Minà è stato uno dei primi giornalisti italiani a occuparsi in modo serio di cultura brasiliana e a farne conoscere in Italia alcuni degli esponenti più prestigiosi: da Vinicius de Moraes a Jorge Amado, a Chico
Buarque. Nel
suo sito web ufficiale, lei afferma: “In questa piazza telematica (…)
ho cercato ed ho trovato lo spazio e la libertà che ultimamente mi era
difficile ottenere nei mezzi di telecomunicazione”. Come definirebbe,
oggi, il suo rapporto con i media? Pessimo,
ma forse è legato alle scelte della mia vita: quando ero l’inviato al
seguito del fenomeno-Mohammed Alì o al seguito del fenomeno-Maradona,
apparivo come molto simpatico. Ma da quando ho cominciato ad occuparmi di
argomenti non convenienti all’economia delle grandi multinazionali (e
quindi degli Stati Uniti e dei Paesi europei che sono i Paesi ricchi del
mondo) il mio modo di fare giornalismo -tanto applaudito quando lo facevo
per lo sport- non era più così accettato, perché in realtà non
eludeva, non nascondeva, non mentiva. Siamo
di fronte ad una delle grandi ipocrisie del nostro tempo, e le nazioni che
si autodefiniscono “civili e democratiche” sono partecipi di tutti i
misfatti che si compiono nel mondo, ma questo non si può scrivere sui
giornali di proprietà della
grande economia europea: improvvisamente si diventa scomodi e forse un
po’ retrò. Ma il mondo sta andando verso una deriva terrificante dove
la violenza aumenterà perché
la politica economica dei grandi Paesi ricchi è “estremista” e a
questo tipo di politica ormai i poveri rispondono con il terrorismo. E
queste affermazioni la dicono persone come Noam Chomsky, o Frei Betto, o
premi Nobel per la Pace come Adolfo Pérez Esquível, o vecchi premier
indiscutibili, che hanno portato la democrazia nel proprio Paese, come
Mario Sóares, il presidente portoghese. E’ chiaro che il mio modo di
fare giornalismo non acquista simpatie, ma non potranno neanche
fermare la mia aspirazione di controinformare sulla realtà del
mondo. Lei
in passato ha fatto anche tv di intrattenimento, e c’è chi ricorda con
una certa nostalgia “Blitz”, un programma-contenitore domenicale su
Rai 2, nel quale per un certo periodo lei riuscì a imporre il “suo”
modo di fare televisione. Cosa è cambiato da allora nella tv italiana? La
TV italiana è ostaggio di una vergognosa legge sulla televisione, o
meglio, di una incorretta legge sulla televisione, applicata in modo
vergognoso, la Legge Mammì.
La legge, già favorevole agli interessi di Silvio Berlusconi, ha
deteriorato la situazione nel panorama televisivo. Anche all’epoca del
governo di centrosinistra non si è sentito il bisogno di porre rimedio:
siamo l’unico Paese al mondo che presenta questa realtà. Nei Paesi
europei di sicura democrazia (almeno così sostengono), ogni televisione
di Stato ha due canali: uno per il divertimento ed uno per la divulgazione
della cultura. Ogni privato ha un solo canale e
quindi non è vero, come sostiene Berlusconi, che con un solo
canale non si può fare la televisione commerciale. Un
solo canale proprio perché il potere di convincimento, il potere di
condizionamento da parte della televisione, è esaltato. D’altro canto
Berlusconi è un imprenditore e sa perfettamente che, se una cosa non
passa in televisione, non si vende: quindi, se per vendere i propri
prodotti si usa la televisione, è ovvio che per vendere le idee e le
convinzioni si usa questo mezzo. La televisione ha lo stesso potere sia di
farti vendere una certa marca di biscotti, sia di farti indirizzare verso
un modello di società che tu pensi sia l’unico vivibile. E’
un modello falso, perché l’80% dell’umanità
non sfiora nemmeno lo
stile di vita reclamizzato dagli show e dai quiz apparentemente innocui,
però poi si va a votare il partito che ti sembra promettere il modello di
vita che la televisione promette. Siamo ostaggi di
questa situazione, che inizia con Craxi, il quale tornò di corsa da
Londra per proteggere la televisione di Berlusconi. Secondo la legge Mammì
Berlusconi doveva prima vendere, e poi mandare via satellite Rete 4,
imponendogli cioè di privarsi almeno di una rete, ma la vendita
non è mai stata attuata, prechè si inventarono il marchingegno
dell’allargamento delle concessioni. La legge infatti sancisce che un
privato non può avere più del 25% delle concessioni tv; ma se le
concessioni vengono aumentate, è chiaro che ci sono più possibilità di
eludere la anormativa. Ed infatti, ultimamente,
hanno ampliato
le concessioni in modo che da nove diventassero dodici. E’ un
po’ grottesco considerando che, per esempio, c’è chi è rimasto
prigioniero come, ad esempio, Telemontecarlo che, rispettando la legge,
non ha allargato i suoi impianti, mentre Telepiù -allora controllata dal
solito Berlusconi- metteva i ripetitori e gli impianti in tutta Italia,
diventando una rete considerata nel pacchetto delle dodici, pur non avendo
ancora una programmazione. Su questa anomala situazione, gli italiani sono
stati anestetizzati, per cui pensano che questa sia una battaglia di
retroguardia ed invece è proprio questa la vera battaglia. Oggi,
tutte le radio private sono o di proprietà o di influenza -attraverso la
pubblicità– di Berlusconi (per il 90 %), insieme alla maggior parte dei
giornali. Ovviamente, è chiaro che oggi il governo condiziona
pesantemente la situazione, perché, per esempio,
se la Fiat andasse in fallimento, i due giornali Il Corriere della
Sera e la Stampa potrebbero benissimo finire nelle mani dell’attuale
premier anche quelli. La televisione che si faceva una volta non è più
possibile proporla, perché oggigiorno la programmazione viene imposta dai
creativi e dai pubblicitari degli sponsor che sovvenzionano le
trasmissioni: vogliono scelte di basso livello, perché in questo modo
raggiungono un’utenza più vasta. Quarant’anni
fa, chi partecipava al quiz “Lascia o Raddoppia” doveva sapere se
Giuseppe Verdi avesse mai usato il controfagotto nelle partiture di una
sua opera; doveva sapere che esisteva uno strumento chiamato controfagotto
che un grande autore come Giuseppe Verdi poteva aver utilizzato nelle sue
opere liriche; doveva conoscere le opere liriche di Giuseppe Verdi. Adesso
le domande sono del tipo è: “Quanti fagioli ci sono nel bicchiere?”
e, inevitabilmente, allegata alla risposta, c’è sempre: “Per favore
mi dia un aiutino…”. Il
livello, insomma, è adeguato alle esigenze del mercato. Papa Giovanni
Paolo II lo ha chiamato “capitalismo selvaggio” dove il mercato è
dio, e lo combatte alla stessa stregua con cui martellava il comunismo. Ma
le dichiarazioni del Papa finiscono in seconda pagina, perché non sono più
convenienti all’economia dei paesi ricchi. Quel tipo di esperimenti che
la televisione si poteva permettere allora -non così “ostaggio”
dell’audience- non sono più possibili; anzi, quel tipo di televisione
ora è considerato allarmante e lo è ormai da una decina d’anni.
Secondo me è passato una specie di accordo trasversale -e purtroppo una
parte del centrosinistra ha accettato questo ricatto- per cui, già ai
tempi di Celli (direttore generale insediato durante il governo di
centrosinistra) le cariche nevralgiche
in Rai erano in mano al centrodestra. Ricordo infatti che durante
il centrosinistra, il direttore di Rai
Uno era Saccà, attuale direttore generale della televisione
dell’attuale governo Berlusconi. La
sua rivista, “Latinoamerica e tutti i sud del mondo”, vanta la
collaborazione di personaggi come Luis Sepúlveda, Eduardo Galeano, Frei
Betto, Chico Buarque de Hollanda, Noam Chomsky, Manuel Vásquez Montalbán,
e altri. Tutti grandi esperti dell’universo latinoamericano. Quello che
oggi lei fa, è un giornalismo alternativo, contrario alla logica
neoliberista. E’ stato necessario individuare un proprio spazio per dare
voce a queste persone e ai temi che la appassionano? No,
lo spazio esisteva ma non era occupato. Poco a poco ho visto grandi
colleghi, anche figure fondamentali nei loro giornali per decenni, essere
messi da parte. L’informazione dei giornalisti, quelli capaci di
arrivare ovunque o col telefono raggiungere chiunque, è un’informazione
scomoda. Sembra quasi di assistere ad un capovolgimento della realtà: la
verità, la maggior parte delle volte, è meglio ignorarla. Quando il
professor Santarelli e Bruna Gobbi -che da vent’anni con le proprie
forze avevano portato avanti quest’idea di Latinoamerica nata nell’82-
mi
hanno chiamato perché, essendo anziani, non se la sentivano più di
portare avanti questa sfida, ho
subito capito che questa era l’occasione per avere un’isola, anche se
piccola, dove concentrare tutta quell’informazione che io -avendo
relazioni costruite per vent’anni in Nord, Centro
e Sudamerica- non riuscivo a leggere sui giornali italiani, ma anche
europei, ad eccezione di Le Monde Diplomatique o El País in Spagna. Ho
pensato che una certa informazione negata, se la racconta gente
sconosciuta, viene subito respinta, insinuando il dubbio sulla loro
credibilità. Così ho contattato Luís Sepúlveda, Paco Ignacio Taibo,
Eduardo Galeano, Frei Betto, Miguel Bonasso ed anche prestigiosi
intellettuali nordamericani come Noam Chomsky, Waine Smith o Joe Hamill
perché scrivessero articoli sull’attualità. Hanno risposto tutti di
si, pagandoli con una bottiglia di grappa a testa, perché soldi per il
compenso ancora non ci sono). L’idea di
caratterizzare Latinoamerica ogni volta con le foto di un grande reporter
(ho avuto l’onore di avere Zizola, Salgado, Senigalliesi,
Tano D’Amico) è stata premiata, perché illustrano in modo perfetto
certi articoli su dolori, realtà, e ferite di nazioni meglio di tante
parole. Durante
gli Anni ’60 lei conobbe e intervistò alcuni dei brasiliani esiliati
dalla dittatura di allora. Ricordiamo una sua storica intervista in un
ristorante romano dove, oltre al poeta Ungaretti, erano presenti Vinicius
de Moraes e Chico Buarque de Hollanda, accompagnato da un giovane
chitarrista… un certo Toquinho. Ci può
descrivere l’atmosfera che si respirava durante quelle riunioni? Ho
imparato molto da questa gente, perché avevano un modo, malinconico e
allegro allo stesso tempo, di vivere l’esilio. Parlavano del Brasile che
avevano lasciato per sfuggire alla dittatura, degli arresti, delle
torture, della gente che spariva, ma parlavano anche di donne, motori,
calcio, samba… C’era la grandezza di questi due grandi vecchi,
Vinicius de Moraes e il suo amico Ungaretti. Li univa la passione per le
donne: l’ottantenne Ungaretti stava sempre mano nella mano con una
fidanzata di trentatré anni e Vinicius -poeta poetinho e camarada come
hanno scritto Chico e Toquinho nella canzone dedicata a lui- in quel
momento era arrivato al quarto matrimonio (poi sarebbe arrivato a sette). Si
parlava di poesia. Io ho conosciuto bene la poesia di Ungaretti, perché
ne parlava Vinicius che l’aveva tradotta in portoghese, e viceversa
Ungaretti aveva tradotto Vinicius in italiano. La
simpatia ed il coinvolgimento divennero talmente intensi che un paio di
anni dopo, quando sembrava che ci fossero le condizioni, malgrado la
dittatura, di poter tornare a casa, mi invitarono. Ed io finii a Bahía,
nella casa che Vinicius aveva di fronte al mare di Itapuã, dove lavorava
con Toquinho e dove passavano delle ragazze bellissime. Io e la mia troupe
televisiva rimanemmo molto “colpiti” da questo viavai. Ho
delle immagini bellissime di Vinicius de Moraes in pigiama azzurro che
apre il cancelletto della sua villetta a cinque metri dal mare, porta una
sedia e si siede con i piedi nel mare e Toquinho che canta. E’
stato questo il suo primo approccio con la cultura latinoamericana? Sì.
Ho conosciuto l’essenza di un continente e della sua intellettualità.
Un mondo che sa lottare, che sa soffrire, ma che sa anche ritagliarsi la
mezz’ora di allegria. Ricordo che Jorge Amado -che conobbi proprio
allora a Bahía– un giorno mi disse: “Sono venuto tante volte in
Europa ed ho notato che voi sorridete poco; eppure noi che lo facciamo
avremmo meno ragioni di voi di sorridere… per noi è già bello esser
venuti al mondo.” A
proposito del Brasile, lei non ha mai nascosto le sue simpatie per il
neopresidente Inacio Lula da Silva, che tra l’altro ha recentemente
intervistato. Pensa che Lula riuscirà davvero a risollevare il Brasile
povero dalla sua attuale condizione? Lula
ha spiegato con molta chiarezza qual’è il suo obbiettivo primario: dare
due pasti al giorno ad ogni cittadino del Brasile. Sembra a prima vista
una dichiarazione singolare, ma in realtà è una conquista essenziale in
Brasile ed in America Latina. Il fatto che ci sia più del 50% dei
cittadini di quel continente che non può fare due pasti al giorno, che la
mortalità infantile prima del terzo anno di vita sia del 70, 75 per
mille, mentre a Cuba è dell’8 per mille (come la
media svedese) allora ti rendi conto che è possibile invertire la
rotta anche in America Latina, a meno che non si rimanga prigionieri delle
strategie delle multinazionali e dell’attuale governo Bush che, come ha
detto Noam Chomsky, non vuole “l’integrazione”, ma
“l’annessione” dell’America Latina. Secondo
lei, il lavoro del neopresidente, sarà ostacolato di più dalle vecchie
gerarchie politiche ed economiche, o dalle pressioni degli Stati Uniti? Dagli
Stati Uniti che si compreranno le vecchie gerarchie politiche brasiliane.
Perché l’attuale amministrazione vuole far passare l’Alca
-Associazione del Libero Commercio delle Americhe- che in realtà è un
cappio al collo per tutti i Paesi latinoamericani. Infatti,
come mi ha spiegato Riccardo Petrella (esperto del problema mondiale delle
risorse idriche), con la nascita dell’Unione europea, si è subito
pensato non solo di dare degli aiuti, ma anche di creare una situazione
che favorisse la crescita dei Paesi europei più poveri che, all’epoca
(a parte l’Italia e la Spagna) erano il Portogallo e la Grecia. Se tu
non porti i Paesi economicamente meno forti al livello di quelli forti,
l’associazione tra nazioni diventa lo sfruttamento di quelle più ricche
nei confronti di quelle più povere all’interno della stessa
associazione. Gli Stati Uniti non vogliono neanche sentir parlare di
questo tipo di meccanismi nell’Alca: come può l’Ecuador fare un
trattato di libero commercio con gli Stati Uniti? Oppure, come può farlo
il Paraguay o l’Argentina che ora è al tracollo? La vittoria di Lula
alle elezioni brasiliane è un cambio di rotta: l’attuale presidente
brasiliano non entrerà nell’Alca, ma cercherà di rinforzare il
Mercosur, l’associazione di nazioni del cono Sud del continente, che di
fatto funziona, ma potrebbe funzionare molto di più se non fosse
boicottato. Frei
Betto ha affermato che “la sovranità alimentare a livello nazionale,
regionale e locale è un diritto umano fondamentale; in questo senso
costituiscono richieste fondamentali la riforma agraria e l’accesso dei
contadini alla terra”. Secondo lei, Lula riuscirà a portare a termine
la tanto sospirata riforma agraria? L’altra
cosa che farà Lula è proprio la riforma agraria. Il mondo dovrebbe
indignarsi del fatto che, all’inizio del terzo millennio, più di
cent’anni dopo la risoluzione di questo problema nelle nazioni europee,
il Brasile non abbia ancora una riforma agraria. Neanche il presidente
Cardoso, dopo due mandati, è riuscito a farla. I cacique, i padroni della
terra incoltivata, padroni di territori grandi quanto due, tre, quattro
regioni italiane, non hanno permesso al nono Paese per ricchezza
economica, di attuarla. Questo Paese, infatti, è il nono per ricchezza
economica, ed il quarto produttore di alimenti, anche se la gente non
mangia frutta perché costa troppo. Il Brasile, che ricopre mezzo
continente, ha un potenziale incredibile, ma ha anche dieci milioni di
bambini randagi. Tutto questo è osceno, e dovrebbe indignare il mondo che
si autodefinisce “civile e democratico”. Come
dice Frei Betto, non c’è nessun Paese, non solo latinoamericano ma del
mondo, che accettando le regole del Fondo Monetario Internazionale, abbia
migliorato la sua condizione, anzi, ha accentuato il tracollo. Allora,
quando l’Argentina disperata, chiede aiuto, e Bush gli risponde “segua
le regole del Fondo Monetario”, Bush in realtà sta dicendo
“l’Argentina si metta una pistola alla tempia e si spari”. Questo,
in realtà, è ciò che fa il Fondo Monetario Internazionale: è plateale,
lo sanno tutti e allora, perché la stampa borghese ed illuminata, europea
ed italiana, che dà lezioni di morale e di democrazia a tutti, non si
ribella? Perché accetta questa vergognosa logica che nasconde
un’ambiguità di fondo? Non si vuole ammettere che il capitalismo è
fallito ancor più del comunismo, poiché condanna l’80% dell’umanità
alla povertà. E’ come se questo fosse stato deciso da un Dio e non si
può cancellare. Ma non l’ha deciso nessun Dio. Il
capitalismo fa soffrire e massacra gran parte dell’umanità, di più di
quanto lo abbia fatto il comunismo. Perché bisogna assolvere il
capitalismo? Perché –dicono- è l’unico modello. Ma è l’unico
modello per le ventitre o ventiquattro nazioni che in questo momento
possiedono la ricchezza; per il resto dell’umanità è solamente un
esempio di come non si possa più vivere in questa situazione. Noi abbiamo
solo vinto la lotteria biologica, siamo nati nel Paese giusto, al momento
giusto. Perché, anche in Italia, se fossimo nati nella prima metà del
secolo passato, saremmo emigrati per fame come facevano da Treviso: non
dalla Sicilia o da Napoli, ma da Treviso e da Pordenone. Passando
ad altro argomento: lei ha avuto la fortuna di conoscere Jorge Amado, uno
dei più autorevoli personaggi della realtà brasiliana: la voce del
popolo, della gente ai margini, che si autodefinì un “saggio di
saggezza popolare”. Che ricordo conserva di lui sotto il profilo umano? Una
tenerezza infinita. Mia moglie ed io ricordiamo sempre quando andammo a
trovarlo a Bahía, ci portò a mangiare in un ristorante africano a lui
carissimo, dove il cibo era ancora cucinato come facevano gli schiavi neri
arrivati dall’Africa, sbarcati dalle galere portoghesi o olandesi.
C’erano farine ricavate dal cereale triturato con due sassi, c’erano
spezie… Insomma, un pasto che ci aveva acceso la curiosità. Lui amava
moltissimo l’anima nera del Brasile, il meticciato, anche perché Jorge
Amado sin da giovane aveva raccontato quel mondo fuori dalla vita, ma che
invece la vita se la reinventa. In uno dei suoi libri, "Navigazioni
di cabotaggio", ha messo insieme i ricordi della sua esistenza,
descrivendo la sua famiglia che fabbricava sandali all’interno del
Brasile. Con
lui ho avuto degli incontri lunghi e belli; la sua vita me l’ha
raccontata con grande allegria, come Vinicius… Avevano lo stesso sguardo
amaro sul mondo, ma anche la stessa capacità di allegria, così come la
sua sposa, Zélia Gattai -figlia di anarchici friulani emigrati per
evitare il fascismo- che lo seguiva con tenerezza ma anche con un grande
divertimento. Quando feci una puntata con lui, per il programma
“Storie”, ed ogni intervistato aveva un ospite che raccontava qualcosa
di inedito di lui, Zelia, questa donna ottantenne, entrò nello studio
dicendo: “Per me quest’uomo continua ad essere sensuale ed erotico”. Nel
corso della sua vita lei ha conosciuto e intervistato alcune tra le più
grandi personalità della storia contemporanea come Fidel Castro, Cassius
Clay, il subcomandante Marcos, ma anche numerosi personaggi della cultura
come il brasiliano Chico Buarque, che nel proprio paese è molto amato.
Saremmo molto interessati ad avere da lei un breve ritratto di questo
grande personaggio. Concordo
con quello che dice Franco Fontana, il manager che portò in Italia i
grandi della musica brasiliana negli anni Settanta e Ottanta (gli sia dato
merito per averceli fatti conoscere): Chico Buarque è una delle persone
più serie che esistano in Brasile. Chico è di lignaggio nobile come
denuncia il suo cognome, Buarque de Hollanda: i suoi antenati erano
conquistatori provenienti dall’Olanda. Ultimamente
ride beffardo del fatto che una delle sue tre figlie abbia sposato
il mulatto Carlinhos Brown -un cantautore del momento in Brasile-: “Ho
dei nipoti color caffè… pensa i miei antenati come avrebbero visto in
modo scandaloso questa situazione!”. Chico è un vero intellettuale, un
uomo coltissimo e lo era sin da giovane: l’ho conosciuto quando aveva
ventitre o ventiquattro anni, era venuto in esilio perché le sue canzoni
avevano dato fastidio alla dittatura: “Funeral de um lavrador”, o “A
pesar de você” che recita: “ Malgrado te, domani sorgerà il sole, ti
stupirà il fatto che sarà sorto senza che tu lo abbia comandato…”. Lui
ha sempre amato l’ironia sottile: mi ricordo di un verso meraviglioso sull’omicidio bianco di un lavoratore che cade
dall’impalcatura. Per sottolineare l’inadeguatezza di un povero
lavoratore brasiliano a quello che chiamano “sviluppo” (come ha detto
Pasolini, “Nel mondo c’è stato lo sviluppo, ma non il progresso”)
scrisse: “…E cadde contromano intralciando il traffico…”. La sua,
è un’ironia nera, a me piace questa sua finezza intellettuale. Ora è
finalmente diventato, alla soglia dei sessant’anni, quello che voleva
veramente essere: uno scrittore. In Italia hanno pubblicato solo due dei
suoi libri. Ha cominciato scrivendo versi per samba, poi teatro e poi
romanzi. In Francia i suoi scritti hanno avuto molto successo, tant’è
vero che è stato insignito della Legion d’Onore. Chico
è una persona molto tenera, molto dolce, non alza mai la voce, ma allo
stesso tempo è capace di schierarsi: la dittatura lo individuò come un
pericolo e lo costrinse ad andarsene con la sua giovane moglie Marietta.
Arrivò in Italia, era il 1969. ma era già diventato famoso nel mondo
perché aveva composto “La banda”, che Mina aveva reso un successo
anche in Italia. Molto amato dalle donne con i suoi occhi azzurri, è
rimasto ragazzo per tutta la vita e gioca a pallone praticamente tre volte
alla settimana: si è fatto costruire a casa il campo di calcio, ed
organizza divertentissime partite fra artisti. L’unico litigio che abbia
avuto nella sua vita è stato con Toquinho proprio per una partita di
calcio. Non si parlarono per due anni, e devo dire che poi fecero pace,
forse un pò per merito mio: non riuscivo a mettermi in contatto con lui
per una trasmissione televisiva e Toquinho, che era in Italia, si offrì
di aiutarmi. Chiamò due o tre amici, Chico aveva cambiato numero, lo
rintracciò… e fu così che si riappacificarono. Cosa
si sentirebbe di consigliare a un giovane che nell’Italia berlusconiana
voglia fare giornalismo con un approccio meno anglocentrico di quello
corrente, dando voce ai poveri, agli oppressi, agli ultimi della terra?
Meglio lasciare perdere? Mai lasciar perdere, però non è facile. Bisogna creare piccoli circuiti, fogli di controinformazione, come ha fatto ad esempio recentemente un gruppo di ragazze di Palermo, che ha dato vita alla rivista mensile “Tribù astratte”. Tante volte, un piccolo movimento che produca un foglio povero - che però ha dentro delle idee interessanti-, può essere notato da qualcuno e diventare immediatamente una realtà della controinformazione.
Link: http://www.giannimina.it (Sito ufficiale di Gianni Minà) http://www.giannimina-latinoamerica.it/ (Edizione web della rivista "Latinoamerica")
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