Daniela, inquieta e impegnata La Mercury a ruota libera sulla sua militanza sociale e politica
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Si, la famiglia di mia madre era di origine italiana - esordisce Daniela alla mia constatazione -. Mio nonno Edgardo era di Pesaro e morì a 101 anni, e mia nonna Olga (95, vivente) di Genova. Si sono conosciuti in Brasile ma sono italiani a tutti gli effetti, e quindi molto allegri: mio nonno suonava il piano a modo suo, come molti all’epoca; la musica faceva parte del bagaglio culturale di chi arrivava dall’Europa. L’italiano lo parlavano in casa tra di loro per non farsi capire, per raccontarsi i segreti. Proprio oggi ricordavo che spesso mi chiamavano “impiastro”, e io che ho sempre pensato fosse una brutta cosa... poi oggi mi hanno spiegato. E poi i ravioli e le cene di natale, ma sono una ballerina e ho dovuto presto abbandonare le migliori tradizioni italiane. Mio padre invece era un portoghese che amava jazz e blues, ed è simpatico pensare che tutto questo è stata la mia formazione. Ora vivo a Salvador, città super africana, e ho sempre avvertito molto il legame con la cultura della mia città: danzo afro come una negra, frequento i candomblè anche se sono cattolica e vivo il carnevale intensamente, ma queste due radici europee mi hanno resa un po’ esistenzialista e mi sento sempre divisa. Comunque sto lavorando per diventare totalmente sambista. Parlando ora del tuo lavoro non si può fare a meno di notare che, dopo l’epoca d’oro dell’axé (il tuo cd "Canto da cidade" è del ‘91), i tuoi ultimi dischi abbiano preso un lato più intimista, grazie anche alla musica d'autore. Quest’ultimo disco si chiama "Sou de qualquer lugar" (e canticchia alcuni versi della title track di Lenine e Falcão, ndr): già il titolo è emblematico poiché parla della mia radice brasiliana. Nel mio paese si suona qualsiasi genere musicale, ma io voglio fare del samba la base del mio lavoro. In molti pensano che esista un solo samba, ma in Brasile ne esistono decine: quello che si suona a Bahia è differente da quello di Rio e viceversa; nel nordest le tradizioni popolari aiutano a mantenere viva questa diversità che deve essere salvaguardata. Caetano ha scritto “Meu coraçao vagabundo quer guardar o mundo em mim”. Io sono inquieta, sono cannibalista, post-tropicalista. Quando ho cominciato mi interessava la massa di Salvador. Esteticamente, politicamente, musicalmente. L’axè mi ha fatto impazzire. Ma sto mutando temi e sonorità, parlo più di amore e delle donne, sono stata e continuo a essere portavoce di una cultura, ma voglio aprire i miei orizzonti, non ho il minimo pudore a mischiare tutto ciò che sono, però sono e continuo a essere una sambista. Una cosa che colpisce noi europei sono le svariate collaborazioni che coinvolgono i musicisti della mpb, mentre da noi i musicisti sono alquanto gelosi del proprio lavoro... E’ vero, in diverse occasioni mi hanno fatto questa osservazione. Io ho cantato con Tom, Caetano, Gil, Chico Buarque, Lenine sempre con immensa gioia e senza alcun problema. Caetano è il più aperto, sembra che abbia 15 anni, lui adora scoprire nuovi generi e personaggi. Penso che da noi sia normale che un artista consacrato aiuti a scoprire nuovi talenti, che canti o suoni con gli amici, anche se tra noi donne è più difficile. Tornando in Brasile registrerò in dvd e, non avendo molto tempo, ho chiesto Carlinhos Brown se mi può aiutare. “Logico, menina!” mi ha risposto. La musica presuppone generosità. Josè Saramago ha detto una cosa bellissima: "il modo migliore di avere é desiderare e il peggior modo di desiderare è avere". Fare arte è di per sé un atto di generosità: è il capitalismo che confonde i cuori e i sentimenti. Poco fa hai detto che la tua scelta di fare musica e cantare per la tua gente è stata una scelta anche politica: essere diventata un “dominio publico”, un modello per molti giovani e non ultimo quello di ambasciatrice Unicef è una costrizione o un dovere civile? Sono figlia di un assistente sociale, e nella musica che Lenine ha fatto per me si dice “Mia madre ha fatto miracoli ed io bambina ho visto moltiplicarsi pesci e pane”. In casa siamo stati abituati
a credere che la nostra felicità è vincolata alla felicità della nostra gente. Quando parliamo di “naçao” è come parlare di fede. I Brasiliani hanno una relazione
molto forte con il proprio paese e malgrado il mio successo e la fama non posso fare a meno di sentire che la mia gente non possiede ancora giustizia sociale e diritti umani. Abbiamo un paese molto bello, di gente spontanea, tutti si incantano per questo, anche scoprendone la povertà. Lavoro da anni per l’Unicef contro il lavoro minorile, l’aids, il turismo sessuale, per l’handicap e contro la violenza, e a me sembra che il Brasile di oggi sia un po’ migliore. Avremmo
soltanto bisogno che i paesi ricchi e i ricchi del nostro paese facciano qualcosa per tutti. Aprire i mercati e creare il rispetto per i propri prodotti. Non basta la filantropia, bisogna dare autostima alla popolazione e al proprio lavoro. Non servono solo azioni di solidarietà. Gli interessi in Brasile sono molto alti per cui i nostri mercati sono pieni di speculatori che guadagnano montagne di soldi. Tutto il mercato finanziario, le borse, sono una grande menzogna, è un gioco complicato e crudele, come del resto
lo sono i giochi di potere. Ho votato Lula alle elezioni precedenti, ma oggi sono divisa tra Lula e Serra
perché penso che sia importante dare continuità a ciò che il presidente
Cardoso ha cominciato a fare. Per l’istruzione, ad esempio, o per le imprese, o per la trasparenza amministrativa. La priorità del sociale è una questione finanziaria. Adesso dovremmo prendere e punire i corrotti, che sono tanti, del resto anche voi in Italia ne sapete qualcosa …
(si tappa la bocca, poi si scusa e ride…)
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