Snobbando platealmente il mercato
brasiliano, esce per la Bmg spagnola l’ultimo lavoro del baiano. Un album da villaggio globale che
è il trionfo della miscigenacão e dell’abbattimento delle frontiere tra i vari
sound afro. Già vederlo sulla copertina ingrassato, con un cappellaccio da
cowboy e un look a metà tra Gato Barbieri e un bullo cubano di Miami fa una certa impressione. Se poi collocate il
cd nel vostro lettore e lanciate la prima traccia (una torbida e ironica storia di
“Carlitos” e di “Merlitas”, effervescente di congas e tres nella
più pura tradizione habanera di un Beni Moré), quasi pensate di avere sbagliato album.
Niente paura,
è solo l’ennesimo travestimento di Carlinhos Brown, che cerca un
flirt col sangue afro-ispanico trasferendosi armi e bagagli alla Bmg
iberica dopo essere stato scaricato senza troppi complimenti dalla Virgin brasiliana.
Lo sforzo di internazionalizzazione è più evidente che mai: il nostro Brown cambia nome, mescola le carte su un canovaccio che sfiora a
più riprese la salsa, la cumbia, il son e si lancia in un portunhol improbabile quanto irresistibile. Ma
è uno sforzo godibile. Il calderone ritmico, già molto lontano dall’axé/samba reggae che il
baiano ha contribuito a lanciare, funziona a meraviglia ed è pervaso dal solito infallibile intuito melodico pop che contraddistingue tutte le sue produzioni.
Carlinhos guarda avanti insomma, e cerca di dimenticare le recenti critiche in
terra patria spostandosi sullo scacchiere continentale. In realtà trova modo di vendicarsi,
perché quest’ultimo album esce in Europa e non in Brasile (per ora), sull’onda dell’apprezzamento del vecchio continente per le sue produzioni solari e soprattutto per il successo travolgente di “Namorada”. I critici spagnoli e portoghesi rispondono favorevolmente e
già in maggio Brown è stato in tournée a Madrid e Lisbona per presentare il disco al pubblico. Lontano geograficamente da Bahia, ma come sempre vicino al suo popolo con il cuore e con la musica, l’artista brasiliano
è perfettamente a suo agio nei nuovi panni di Carlito. «Mi sento bene», dice,
«in Spagna si respira pace». E dimostra che le preoccupazioni di Arto Lindsay per il suo licenziamento dalla Virgin erano eccessivamente pessimistiche. In fin dei conti ha visto giusto il neo-ministro della cultura
Gilberto Gil, sempre pieno di attenzioni per i suoi colleghi: «Non ci
sarà alcun problema per trovare una nuova etichetta dopo che Carlinhos ha registrato con
Arnaldo Antunes e Marisa Monte». Aveva ragione: con i Tribalistas Carlinhos Brown si
è confermato musicista da milioni di copie vendute (il cd impazza ora anche in Italia), chi potrebbe trascurare una simile gallina dalle uova d’oro?
Torniamo a “Carlito Marron”, per notare che, a dispetto delle impressioni di primo ascolto, l’album rivela tracce fortissime di
continuità con i lavori precedenti. Qua e là affiora il funky (contagioso ed elegante in “Baby Groove”), il quasi ecumenismo religioso della
soft “Ala’-a-a”, il carnevale baiano geneticamente ineliminabile di “My Honey”, gli echi di “Omelete Man” e del suo
pidgin anglo portoghese in “I wanna Lu’”. Il tutto alternato al ritmo caliente predominante, quello cubano, ben rappresentato dal tres di Papi Oviedo, eccellente
session-man ospite.
Con
alcuni piccoli capolavori istantanei che vanno qui segnalati: lo struggente “Cumbiamoura”, dagli agrodolci sapori moreschi, in collaborazione con
Andres Levin; la splendida “Juras de Samba”, dolcissima ballad a la
Stevie Wonder impreziosita da un intervento vocale della star spagnola
Rosario Flores; l’allegria estroversa di “Conga e Bongo”, perfetto connubio Bahia-La
Habana. Menzione a parte la merita “Ifa’ de Copacabana”, per due motivi: il primo
è la presenza di una Bebel Gilberto, artista sempre più carismatica e di culto, ai suoi massimi livelli di persuasione canora. Il secondo
è l’implicito e trasparente omaggio al Santana di “Oye como va’” nel ritmo latin insaporito da acide pillole di organo Hammond. Un brano davvero di classe, che rispolvera entusiasticamente i
Seventies, con una citazione nascosta a sorpresa dei Doors (se ascoltate attentamente le tastiere vi coglierete il grappolo di note inconfondibile con cui
Ray Manzarek apre il celebre “Riders of the Storm”).
Anche in questo “Carlito Marron” Carlinhos continua a cercare un dialogo e un equilibrio con l’elettronica
più a la page, ma lo fa fortunatamente con buon gusto e delicatezza, a parte un lieve eccesso di vocoder in
“Talavera”. «Io non uso sample», dichiara orgoglioso, «suono dall’inizio alla fine. La musica elettronica
è bella, ci sono cose buone, ma mi piace mantenere una sonorità contemporanea. L’elettronica ripete il suono naturale del mondo, ma se perdiamo il tocco umano, l’elettronica non gli sopravvive. Per me
è più importante che i bambini imparino a suonare un tamburo piuttosto che creare musica col
computer». E vi è da dire che tanta dedizione alle percussioni è evidente nella musica di Brown, addirittura esaltata dall’incontro con Cuba.
Resta da vedere come i brasiliani reagiranno a questa specie di fuga (difficile chiamarlo tradimento), visto che Carlinhos
da qualche tempo è sotto il tiro dei critici paulisti e carioca. Certo, gli imputeranno la solita leggerezza quasi
nonsense dei testi, a volte perfino pacchiani (come nel quasi macarenistico “Baila que e’ bom que e’ iguala”), il
melting pot programmatico a volte quasi da cartolina. Ma sono difetti veniali, che non tolgono il piacere di ascoltare quella che si conferma ancora una volta come una delle voci
più interessanti nel panorama etnopop del Brasile contemporaneo.
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