Recensioni CD |
Just a Little Bit Crazy
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Samba Swing
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Carlinhos Brown è Carlito Marron
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Innocent Bossa in the Mirror |
Tempo Bom
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FARO 077CD **** Joyce torna puntuale come un orologio svizzero in sala da registrazione (oscillando come al solito tra Europa e Brasile) e puntualmente sforna un altro eccellente album, con qualche novita’(parcerias musicali e discretissimo approccio all’elettronica). Dopo l’esaltante collaborazione con Joao Donato e l’ultimo “Gafieira Moderna” (per la verita’ un tantino algido) la matura cantante/chitarrista ci presenta questo “Just a little bit crazy”, che di “maluco” ha davvero poco e di jazzistica eleganza invece ne dispensa moltissima. Siamo sempre nell’alveo di una “hard bossa” mainstream (per la bossa quello che e’ l’hard bop per il be bop) di pregevolissima fattura, con molti collaboratori usuali (Tutty Moreno alla batteria, omaggiato perfino di un brano, il solito fuoriclasse Teco Cardoso ai flauti e ai sax) e un interplay strumentale davvero ammirevole. Si aggiungono in piu’ stavolta nomi di grandissimo rilievo, come il maestro arrangiatore Rodolfo Stroeter al basso, l’inaspettato genio scandinavo delle tastiere Bugge Wesseltoft (memorabile il suo recente “New Directions in Jazz”) e un Nailor Proveta in continua ascesa, soprattutto al clarinetto. Compositivamente Joyce e’ in gran forma e i suoi vocalizzi si distendono per tutto l’arco dell’album con il consueto timbro cristallino: tra uno stravolgimento di classe dei Fab Four (“A Hard Day’s Night”) e un “Galope” nordestino, tra una dolcissima ballad in francese (“L’Etang”) e un movimentato samba dedicato all’omonimo James Joyce (“Samba do Joyce”), la scaletta dei brani si snoda languida e avvincente con poche sbavature. Notevoli i delicatissimi inserti elettronici di Wesseltoft, che sfiorano il sublime nella malinconica “Mal em Paris”, e i riff cool e saltellanti di “Cartomante”. Un disco di genere ma di altissimo livello per un pubblico di sofisticati connoisseurs.
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A.A.V.V. - "Brazilian Beats 4" *** Sull’onda del successo cinematografico di “City of Gods”, la Mr Bongo lancia la quarta collection di sound brasiliani contemporanei (e no), allacciandosi all’epica delle favelas e dei morros carioca in chiave “electro” o, alternativamente, samba-rock. Il risultato non brilla per continuita’ e uniformita’, ma se accettate le regole del gioco, di cui l’eterogeneita’ e’ una delle piu’ ovvie, potete trarre da questo album delle notevoli soddisfazioni. Si parte con un live di Ivo Meirelles e Funk’n’lata in puro stile James Brown da Mangueira: funky carioca a piene mani, di grana grossa ma energia sulfurea. Con un balzo traumatico si finisce tra le braccia morbide e jazzy di Ive Mendes, diva brasiliana trapiantata a Londra e decisa a divenire la nuova Sade lusofona. DJ Marky e XRS cucinano a dovere il tutto, ma non ci si allontana molto da un muzak di maniera per ascensori di lusso. Sempre dalle parti dell’elettronica piu’ trendy i due interventi di Gil Felix (uno con gli Infrared), ma stavolta c’e’ piu’ carne al fuoco, cosi’ come nel remix di “Magia do Prazer” della Banda Black Rio, una chicca danzabile e raffinata. I pressoche’ sconosciuti Beatfanatic deliziano con un riuscito “Jogando Capoeira”, paradigma della electrobossa come la immaginano i britannici. Qua e la’ si affaccia il Brasile di calibro: Clube do Balanco con “Paz e Arroz”, Seu Jorge (l’impagabile Ze’ Galinha del film) con l’ormai classico “Carolina” e Jorge Ben col capolavoro d’annata “Take it Easy my Brother Charlie”. Dallo stesso profondo cappello da cui e’ stato tratto questo coniglio “vintage” emergono anche l’esilarante e tonico kitsch di “Take me Back to Piaui’” (un Juca Chaves sarcasticamente lounge e inquietantemente simile a Tom Ze’) e la coppia nippobrasiliana anni ’70 Sonia Rosa – Yuji Ohno nel sempreverde “Casa Forte”. Che dire? Se non vi ostinate a trovare un fil rouge a tutti i costi la perfetta compilation per le vacanze estive “sognando Rio” e’ servita…
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Carlinhos
Brown - Carlinhos Brown è Carlito Marron ***** Chi è quel losco personaggio in copertina del disco che sembra preso di peso da Carlito’s Way di Brian de Palma? L’ovvia risposta non deve fuorviare dall’apprezzare come si deve un disco per certi versi geniale. In altra parte della rivista si dà conto dei presupposti in cui il disco è nato, e abbiamo quindi l’agio di concentrarci solo sulla musica, che esalta, programmaticamente, gli intrecci musicali, con le salde comuni radici africane, tra le due città a più alta densità negra fuori dall’africa: Bahia e La Habana. La svolta non deve stupire più di tanto, perché già in alcune precedenti produzioni, soprattutto come Timbalada, era emerso lo sguardo di Carlinhos verso la Isla Granda. Il disco comincia subito ad alto livello, con il brano che dà il titolo al disco, scritto assieme a Arnaldo Antunes, una specie di son contrappuntato da smottamenti percussivi tipicamente baiani. Il brano seguente, Cumbiamoura, sembra stilisticamente un crocevia tra la produzione di Ry Cooder, in particolare con Manuel Galban, e le cose di Marc Ribot con Los Cubanos Postizos, in particolare per la chitarra elettrica suonata da Davi Moraes. Il disco prosegue con tre pezzi tipicamente Carlinhos Brown, di cui ricordiamo almeno Baby Groove (#5), per la sua atmosfera vagamente sospesa nell’aria, e per le belle armonie vocali intessute dai cori della Banda da Boca. Un altro vertice del disco è però Ifà de Copacabana (#6), che si apre con un organo hammond memore sicuramente di Santana, come dice Giangiacomo nel suo articolo, ma anche di classici minori del soul-funk anni ’70 come “Why can’t we live together” di Timmy Thomas. Impreziosisce il tutto il duetto con Bebel Gilberto, mai così sensuale e carnale, con la voce scesa di mezzo tono rispetto ai suoi dischi solisti. Clima quente (#7) è un altro esempio del progetto stilistico alla base del disco, e il sapore cubano viene aggiunto, oltre che dal tres di Papi Oviedo, dai frenetici fraseggi pianistici di Yaniel Matos. La ballata “Juras de Samba” (#8), distende per un attimo il climax del disco, con il bel duetto assieme a Rosario Flores. Tralascio per carità di patria “Talavera” (#9), con l’odioso effetto vocoder usato per la prima volta da Cher, che fa sembrare il pezzo come se gli Eiffel ’65 fossero nati a Bahia, salvo il bel finale percussivo molto orientaleggiante. “Yabà” (#11), cerca una fusione tra axé e merengue, mentre “Conga e bongo” (#12), oltre al titolo programmatico, sembra muoversi verso il latin jazz ibrido, un po’ nuyoricano, alla Bobby Sanabria, con in più un leggero velo elettornico che rende il tutto ancora più moderno. Chiude il disco “Ala aa”, una ballata di grande atmosfera e lirismo. Detto dei testi, che come spesso succede nei dischi di Carlinhos non brillano particolarmente per qualità letterarie o messaggi indelebili, ma sembra che servano più che altro a sostenere la scansione ritmica dei brani, si può comunque dire che questo è forse il miglior disco del James Brown di Bahia, musicalmente ricco, vario e raffinato, e privo di quei pezzi iperprodotti e un po’ pretenziosi in cui a volte Carlinhos rischia di perdersi (si veda “Omelete man”). Un (quasi) continuo godimento per le orecchie, e la prima guida galattica per autostoppisti musicali del terzo millennio.
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Jun
Miyake - Innocent bossa in the mirror ***** Diceva William Burroughs, spalleggiato da Aurie Anderson, che il linguaggio è un virus, e tra i linguaggi musicali, la bossa nova è stata la più virulenta di tutti. Per dire, in Giappone ha attecchito quasi subito, e capita che uno dei più bei dischi di bossa nova del 2002 venga da lì. Certo, il tastierista Jun Miyake ha chiamato a sé amici come Vincius Cantuaria, Arto Lindsay e Peter Scherer, compagno di scorribande di quest’ultimo nei Greed, ma osserviamo che dei rispettivi complici ha preso solo la parte migliore: questo disco non ha la a volte eccessiva cerebralità di Arto Lindsay, né la pesantezza dello spleen di Vinicius Cantuaria, e anzi mantiene un’ammirevole leggerezza sensuale per tutti i suoi 42 minuti. Il disco è una successione di delicati acquarelli, molto omogenea nell’eleganza, mai piatta, a partire dal brano di apertura “Cai nessa”, cantato da Vinicius Cantuaria, fino alla chiusura affidata a una versione in brasiliano di un classico degli Stones, “As tears go by”, cantata anch’essa da Vinicius Cantuaria. Altri elementi si aggiungono all’orizzonte sonoro, come l’evidente omaggio a un compositore colto ma di attitudine popolare come Erik Satie, soprattutto in “Lista de praia” (#3), che riecheggia con tutta evidenza le sue “Trois Gymnopedies”. Un obbligo d’acquisto per chi è in cerca di un disco di bossa nove sottilmente sensuale, moderna, evocativa e raffinata.
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Telma
Costa - Tempo Bom E’ bello quando ancora capita di recensire dischi come questi, incisi con l’unico presupposto e fine di ricercare eleganza e comunicativa. Allo scopo Telma ha scelto un repertorio in equilibrio tra compositori moderni e classici della musica popolare, accompagnandosi con eccellenti strumentisti come David Ganc e Daniel Garcia al sax, Monique Aragão al piano, Iura Ranevsky al violoncello. Il lavoro si apre con una raffinata ballata scritta da Humberto Gessinger, “Somos quem podemos ser”, prosegue con un ballata dal sapore più rock come “Diario de bordo”, di Guiga Fittipaldi, e continua con il primo pezzo di repertorio, “Somewhere”, da West side story, un bellissimo triangolo tra la voce di Telma, il violoncello di Iura Kanevsky e il piano di Monique Aragão. Il disco rilancia con una struggente riflessione sull’amore inespresso, scritta da Telma assieme a Luis Flavio Alcofra, che nella seconda parte assume un andamento bossanovato da clubbino jazz, in cui Telma mostra tutta la sua sommessa verve da chanteuse esistenzialista. Si continua poi con il sapore nordestino di Geraldo Azevedo, autore assieme a Geraldo Amaral di “Quem Merece” (#5), e si apre improvvisamente al grande repertorio popolare brasiliana in un duplice omaggio a Marino Pinto: “Segredo”, scritto con Herivelto Martins, e Estrela do mar”, collaborazione con Paulo Soledade. Il primo è trasformato in un samba da camera per voce, tastiere e violoncello, mentre il secondo sembra quasi un preludio operistico, di atmosfere sospese rese benissimo dal flauto di David Ganc. Degna di nota anche la bossanova di “Samba Toque”, scritta da Marcos Lyrio. Il disco prosegue con momenti molto lirici come “Vocalise”, un trio senza parole tra la voce di Telma, il piano di Monique Aragão e la chitarra elettrica di João Cantiber. La coppia di brani che chiudono il disco si apre con una ballata in crescendo scritta dalla stessa Monique Aragão, “Simples”, con l’assolo al sax di Daniel Garcia che conferisce al tutto un sapore pop-jazz à la Diana Krall. Si chiude in bellezza con una versione per niente inutile di “Ave Maria no Morro”, depurata di ogni tensione ritmica e sostenuta solo dal violoncello di Iura Ranevsky, il sax di Daniel Garcia, il piano di Monique Aragão e, soprattutto, la intonatissima, versatile, bellissima voce di Telma Costa. Un disco che mostra, una volta di più, l’importanza cruciale della difficile arte di saper cantare, e ci fa conoscere una interprete raffinata , passionale e di grande tecnica.
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