Giorno
di mercato a Natal Al mercato di
Alecrim puoi trovare di tutto: dal pesce fresco alle traduzione
e adattamento di
Raffaele Bella
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(A feira de Currais Novos, versi di Josefa Nazaré Alves - Currais Novos, RN) |
Questo
lavoro nasce da visite saltuarie, a partire da dicembre 1997,
ai mercati do Alecrim e das Rocas (entrambi quartieri di Natal\
RN), dove ho cominciato ad annotare in un taccuino le mie prime
osservazioni, e di visite successive, quando ho registrato le immagini e i
frammenti di dialogo, pregões
(grida dei venditori ambulanti) e tutte le altre espressioni che seguono —
16.10.98 al mercato di
Alecrim, e 19.10.98 alla fiera di Currais Novos, rispettivamente nei
municipi di Natal e Currais Novos, Rio Grande do Norte; nordeste
brasiliano. Per questa pubblicazione sulla rivista Musibrasil
utilizzo immagini scattate da me recentemente, il 21.6.03, al
mercato di Alecrim.
Il
giorno di mercato è giorno di festa. Questa è quasi sempre la prima
impressione che riceviamo dai mercati all’aperto del Brasile. Nel
Nordeste brasiliano, soprattutto, non mancano esempi di questo raduno quotidiano,
collettivo e colorato. Puoi trovare di tutto al mercato: dal pesce fresco
alle bacinelle di plastica, dai sandali di cuoio agli articoli d’importazione,
ragion per cui è ancor oggi un punto d’intersezione di differenti fasce
d’età e classi sociali, uno spazio che unisce la tradizione alla
contemporaneità, adattandosi al tempo, amalgamando il ritmo elettronico
della grande città alle sonore grida e pregões[2]
dei venditori ambulanti, dei vecchi e dei bambini, lavoratori e “disoccupati”,
tutti conosciuti, tutti
personaggi di uno stesso palco. Osservare
il mercato sotto una prospettiva tradizionale: mangaeiros[3],
erbivendoli, tabacco intrecciato, rapadura[4],
dolce da vendere a chilo, ragazzini che vendono sacche confezionate a mano,
oggetti di cuoio e terracotta, cotone per cucire, aghi, corda di sisal[5],
polli vivi, cesti di paglia, miele casareccio, lambedor[6],
cereali a granel[7],
formaggio fresco, amido di mandioca, il cieco che chiede l’elemosina,
scambia e baratta, vecchietti che chiacchierano e ridono, folhetos[8]
e almanacchi, viola e pandeiro[9]… Osservare
il mercato con gli occhi di oggi: conserve, cibi in scatola, componenti di
elettronica, ricambi d’automobile, di idraulica ed elettrici, prodotti
industriali, indumenti “di marca“, sandali all’havaiana, scarpe da
tennis rainha[10],
articoli importati da 1.99 reais[11],
carros de som[12],
antenne di televisione, compact disc e musicassette pirata, dischi di
vinile usati,
monelli, i successi musicali del momento, il venditore con il
cellulare in pugno, la pubblicità del supermercato lì accanto… Prospettive distinte solo superficialmente: al mercato tutto si mescola e tutto si trasforma. A sorpresa troviamo il lambedor industriale e le conserve fatte in casa, la rapadura tipo esportazione e le antenne di televisione fatte con filo ritorto nel più genuino stile artigianale. Ci sono cose che troviamo solo al mercato. Ci sono cose che - per incredibile che possa sembrare - si trovano anche al mercato. Tutto ciò fa del mercato un territorio contrassegnato dalla diversità e dai contrasti, sia sociali, culturali o economici. Il tempo e lo spazio si incrociano nel mercato - il passato e il presente, la campagna e la città, il mare e il sertão[13] - sono tutti lì presenti negli alimenti, nei modi, nelle abitudini, nell’interesse curioso per le novità. Malgrado la novità, della qualità e della specificità di certi articoli trovati nei mercati, non è difficile notare che non sempre sono il prezzo e la qualità del prodotto i principali motivi che spingono i consumatori a questi mercati all’aperto. L’ uomo del mercato generalmente porta da casa l’abitudine - quando è consumatore - o la professione - quando è mercante - e fa di questo un’ abitudine settimanale, malgrado, nello stesso tempo, condivida la comodità e i prezzi più competitivi dei grandi supermercati e negozi specializzati. I mercanti, prevalentemente, vivono in funzione di questo commercio specifico, tenendo conto della sua natura itinerante, che varia un poco a seconda del “grado di urbanizzazione” del territorio. In città “grandi”, ossia nelle città con più popolazione e più urbanizzate, i mercati si tengono nei quartieri, generalmente in quelli più antichi e più “popolari” - e sempre nello stesso giorno della settimana. Così, per ogni giorno della settimana, è possibile che in qualche quartiere di Natal, Fortaleza, Recife o João Pessoa, per esempio, ci sia una un mercato libero. Già
in città più piccole, nei municipi e distretti più distanti dai centri
urbani, i mercati all’aperto sono parzialmente fissi, giacchè alcuni
commercianti - generalmente quelli che vendono carne, legumi, frutta e
verdura, - vendono lì i loro prodotti tutti i giorni della settimana. Ma
il mercato completo continua a seguire lo stesso calendario settimanale,
ed è solo nel “giorno di mercato” che la riunione è completa. Ai
venditori permanenti, (generalmente abitanti della città), si uniscono
gli ambulanti, i visitatori, i clienti, quelli che si trovano lì solo a
passeggio… e con loro una infinità di prodotti delle più diverse
regioni. Camion,
camioncini e anche automobili servono per il trasporto dei prodotti, per
non parlare della carriola ,
così utile per trasportare merce, esporla per la vendita o anche per
trasportare le compere di quella cliente che abita vicino al mercato, e
che rende una mancia in più al portabagagli. Oppure in bicicletta, che in
molte città della campagna
il principale e più efficiente mezzo di trasporto: economica,
funziona senza benzina e quasi tutti la possono usare. Chi ne possiede una
è padrone di un bene praticamente comunitario. Nei mercati all’aperto
di queste città esistono spazi espressamente
dedicati a loro e si può anche andare al mercato in bicicletta e “parcheggiarla”
lì , dove c’è sempre un ragazzino pronto a tenere d’occhio il
veicolo, per una mancetta,
è logico. “— Compra amido per tua suocera! fai un favore a tua suocera, chè io non glielo ho fatto, ho perso mio marito, e guarda un po’ come mi è andata a finire!” “— Un limone, tre limoni, un limone, tre limoni, un limone, tre limoni…“ “— Chi vuole mangiare foresta, venga qui!” (venditore di lattuga) “— Picolè[14] del gustosino, di cocco e di arachidi…” “— Ei, c’è gelatino d’ acqua?” (conversazione tra un venditore di picolè e un vecchietto di passaggio) “— Guarda che verde! guarda che verde!” (erbe aromatiche, N. d. T.) “— E chiacchierando, ho perso mio marito!” “— Ancora peggio adesso! Che sta con l’abbacchio sotto il braccio!!!” (venditrice e cliente donna che chiacchierano, quando una si lamenta per l’assenza del marito che è andato via con la carne d’abbacchio). “— Date un’ elmosina al cieco tassista di Igapò, che è stato assaltato e hanno accecato i suoi occhi!” (detto dallo stesso cieco, seduto su una cassa, in mezzo al mercato) E’
il caso di mettere qui in risalto le parole di Walter Benjamin quando
afferma che “l’esperienza passa da persona a persona ed è la fonte
alla quale ricorrono tutti i narratori”[15],
ricordando ancora i due tipi arcaici di narratori ai quali l’autore fa
riferimento: i sedentari e i viaggiatori, che rappresentano
rispettivamente il sapere del passato e il sapere dei luoghi lontani. L’interpretazione
di questi due gruppi di narratori risulterebbe nell’ “estensione reale
del regno narrativo”[16].
Dice inoltre Benjamin che durante il lavoro manuale - attività meccanica
che suscita la distensione psichica dell’ individuo -
le narrative raccontate e assimilate perdurano a fondo della
memoria , sia dei narratori sia degli ascoltatori. Trasponendo
lo stesso processo mentale nello spazio contemporaneo del libero
mercato popolare, non abbiamo bisogno di camminare molto per incontrare
potenziali narratori di tutti i gruppi:
itineranti, sedentari, maestri e apprendisti nell’arte di
raccontarte e ascoltare storie, giacchè in tal senso siamo in uno spazio
interattivo, dove entrambe le voci hanno la stessa ricchezza d’esperienza
e memoria. Troviamo anche alcune attività intimamente associate al lavoro
manuale di cui parla Benjamin: donne che fanno merletti, sedute accanto ai
loro banchi, altre che sbucciano granturco… Avrebbero qualcosa da
raccontare? Nei
mercati che abbiamo visitato è stata forte la sensazione di trovarci
faccia a faccia con personaggi molto simili a quelli di Benjamin, i
narratori che l’autore pensò estinti, soffocati dalla rivoluzione
industriale, dalle successive trasformazioni che hanno colpito le società
già all’ inizio del ventesimo secolo. Da allora a oggi molte cose sono
successe, e molte altre grandi e piccole rivoluzioni hanno raggiunto - anche
se in modo differenziato - tutte le classi sociali. Ma anche così, in
mezzo al popolo, sempre con “le sue radici nel popolo”[17],
tra le cose di ieri e quelle di oggi, con un piede nella tradizione e l’altro
nel presente, sembra che loro siano
sempre stati lì - sia nell’ Alecrim sia nel Currais Novos, in
città come nella campagna. E stanno lì in un giorno, orario e indirizzo
esatto: giorno di mercato,
dove troviamo “di tutto”. Ana Claudia Mafra è docente, master in Letteratura brasiliana e dottoranda in Letteratura e Cultura presso l’Università federale dello stato di Paraìba - Brasile. Raffaele Bella è giornalista e collaboratore del quotidiano "Il manifesto".
[2].
Specie di gridi cantanti dei venditori ambulanti. [3].
Persone che vendono erbe per infusi, sciroppi e altre medicine
tradizionali. [4].
Estratto solidificato in tavolette del succo della canna da zucchero,
alimento largamente diffuso nel nordeste brasiliano, ndt. [5].
Fibra vegetale assai resistente tratta dall’ agave, usata nell’allestimento
di costruzioni rurali, ndt. [6].
Tipo di sciroppo fatto in casa. [7].
L’ alimento è prelevato direttamente dai sacchi e viene pesata la
quantità richiesta dal compratore. [8].
Piccoli opuscoli di poeti popolari, importante capitolo della
letteratura popolare brasiliana, ndt.
[9].
Sorta di arcaica chitarra diffusa in tutto il Brasile e tamburello a
sonagli, ndt. [10].
Marca assai popolare, ndt. [11].
Il real, plurale reais, è il nome della moneta
brasiliana, ndt. [12].
Piccoli camion che diffondono musica, ndt. [13].
Zona lontana del’ mare, di clima caldo e secco. [14].
Gelatino da passeggio artigianale, ndt. [15].
Benjamin, Walter. “O narrador: considerações sobre a obra de
Nicolai Lescov”. In: Magia e tècnica, arte e polìtica: saggi sulla
letterratura e storia della cultura. Opere scelte. V.1. Trad. Sèrgio
Paulo Rouanet. 4 ed. São Paulo: Brasiliense, 1985 [1 ed.], pp.
197-221, p.198. [16]. Idem, p.199. [17].
Idem, p.214.
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Dia de Feira*
por Ana Claudia Mafra 1 |
Pra
escrever essa história Tenho
que muito pensar É
sobre a feira daqui Que
é coisa de admirar Seu
povo se manifesta Numa
feira como esta De
tudo tem pra comprar. (A feira de Currais Novos, versos de Josefa Nazaré
Alves – Currais Novos, RN)
Dia de feira é
dia de festa. A primeira impressão que temos das feiras livres no Brasil
é quase sempre esta. No nordeste brasileiro, sobretudo, não faltam
exemplos dessa reunião quotidiana, coletiva e colorida. De tudo você
pode encontrar na feira: do peixe fresco aos plásticos, da sandália de
couro aos importados, razão pela qual é ainda hoje um ponto de interseção
de diferentes idades e classes sociais, um espaço que une a tradição à
contemporaneidade sempre adaptando-se ao tempo, incorporando o ritmo eletrônico
da cidade grande aos sonoros gritos e pregões dos ambulantes, vendedores,
fregueses, dos velhos e meninos, trabalhadores e “desocupados”, todos
conhecidos, todos personagens de um mesmo palco.
Andar pelas feiras e tentar registrar visual e verbalmente um pouco
da sua diversidade, em amplos aspectos, resultou numa experiência repleta
de surpresas, pois a câmera e a caderneta nas mãos e a impossibilidade
de, por isso, passar despercebida diante de todos, gerou um contato
inusitado com os feirantes: todos queriam “aparecer” nas fotos, me
pediam para voltar e mostrá-las depois de prontas, e me paravam
perguntando se era reportagem ou trabalho “para escola”. Alguns se
esconderam diante da câmera — principalmente os mais velhos —,
dizendo-se “cismados” com retratos. Uma mulher chegou mesmo a me dizer
que tirar fotos dava azar. Ainda assim, procurei registrar alguns momentos
que, mesmo estando longe de traduzir o universo de riqueza e diversidade
cultural de uma feira, tentam revelar aos olhos do observador distante ao
menos um mínimo de sua beleza tão peculiar. Olhar
a feira sob uma perspectiva tradicional: mangaeiros[2],
verdureiros, fumo de rolo, rapadura, doce no quilo, meninos vendendo
sacolas confeccionadas à mão, utilitários de couro e barro, linha,
agulha, corda de sisal, galinha viva, balaio de palha, mel de furo,
lambedor, cereais “a granel[3]”,
queijo fresco e goma de mandioca, cego pedindo esmola, troca-troca,
velhinhos conversando e rindo, folhetos e almanaques, viola e pandeiro...
Olhar a feira com os olhos de hoje: conservas, enlatados,
equipamentos eletrônicos, peças de automóveis, hidráulicas e elétricas,
produtos industrializados, roupas “de marca”, sandália “havaiana”,
tênis “rainha”, importados de R$1.99, carros de som, antenas de TV,
cds e fitas K7 piratas, discos de vinil usados, gibis, os sucessos
musicais do momento, o vendedor de celular em punho, a propaganda do
supermercado ao lado...
Perspectivas distintas apenas superficialmente: na feira tudo se
mistura e tudo se transforma. De repente encontramos o lambedor[4]
industrializado e as conservas feitas em casa, a rapadura tipo exportação
e as antenas de TV feitas com fio retorcido, no mais autêntico estilo
artesanal. Tem coisa que a gente só encontra na feira. Tem coisa que a
gente – por incrível que pareça – também encontra na feira. Tudo
isso faz da feira um território marcado pela diversidade e pelos
contrastes, sejam eles sociais, culturais ou econômicos. Os tempos e os
espaços se cruzam na feira – o passado e o presente, o campo e a cidade,
o mar e o sertão, todos estão ali presentes nos alimentos, nos olhares
casuais, no jeito sempre à vontade dos feirantes, nos modos, costumes, no
interesse curioso pelas novidades.
Apesar da diversidade, da qualidade e da especificidade de certos
itens encontrados nas feiras, não é difícil notar que nem sempre são o
preço e a qualidade do produto os principais motivos que levam os
consumidores a esses mercados livres. O homem da feira geralmente traz de
casa o costume – quando consumidor – ou a profissão – quando
feirante –, e faz disso um hábito semanal, embora também compartilhe
da comodidade e dos preços mais competitivos dos grandes supermercados e
lojas especializadas. Os feirantes, principalmente, vivem em função
deste comércio específico, tendo em vista sua natureza itinerante, que
varia um pouco de acordo com o “grau de urbanização” dos territórios.
Em cidades “grandes”, ou seja, nas cidades maiores e mais urbanizadas,
as feiras acontecem em bairros – geralmente nos bairros mais antigos ou
mais “populares” – e sempre no mesmo dia da semana. Assim, para cada
dia da semana é possível que em algum lugar de Natal, Fortaleza, Recife
ou João Pessoa, por exemplo, haja uma feira livre funcionando. Já em
cidades menores, nos municípios e distritos mais afastados dos centros
urbanos, as feiras livres são parcialmente fixas, pois alguns
comerciantes – geralmente os que comercializam carnes, legumes, frutas e
verduras – vendem ali seus produtos todos os dias da semana. Mas a feira
completa continua seguindo o mesmo calendário semanal, e é só no “dia
da feira” que a reunião está completa. Aos vendedores fixos (geralmente
moradores da cidade), juntam-se os itinerantes, os visitantes, os
fregueses, os que estão ali só a passeio... e com eles uma infinidade de
produtos das mais diversas regiões.
Caminhão, caminhonete, até carro menor serve para o transporte
dos produtos, para não falar no carrinho de mão, que tanto serve para
trazer a mercadoria, expô-la para venda ou mesmo levar as compras daquela
freguesa que mora mais pertinho da feira, rendendo ainda um trocado para o
carregador. Ou na bicicleta, que em muitas cidades do interior constitui o
principal e mais eficiente meio de transporte: barata, funciona sem
combustível e quase todo mundo pode usar - quem tem uma é dono de um bem
praticamente comunitário. Nas feiras livres dessas cidades existem espaços
especialmente reservados a elas. Neles qualquer um pode comprar, vender
consertar, equipar, incrementar ou trocar a sua bicicleta por um modelo
mais conveniente. E pode também ir à feira de bicicleta e “estacioná-la”
ali, onde sempre vai haver um menino pronto para tomar conta do veículo,
por um trocadinho, é lógico.
As feiras são lugares sonoros por natureza. A reunião pública e
gratuita de pessoas em torno de dois objetivos muito próximos – vender
e comprar – não poderia resultar em outra coisa que não fosse música.
E a música da feira é a reunião de todos os sons, todas as vozes em
gritos, pregões, frases cantadas, somadas às músicas dos alto-falantes,
dos carros de som, dos gravadores em último volume tocando as fitas K7
que estão à venda, gente conversando, gente se encontrando, gente pondo
o assunto da semana em dia..., vozes das quais conseguimos distinguir
poucos fragmentos:
“ — Compre goma pra sua sogra! Agrade sua sogra, que eu não
agradei, perdi meu marido, e olhe só onde eu vim parar!”
“ — Um limão, três limão, um limão, três limão, um limão,
três limão...”
“ — Quem quiser comer mato, venha pra cá!” (vendedor
de alface)
“ — Picolé do gostosinho, do coco e do amendoim...
—
Ei, tem picolé de água?” (conversa
entre o vendedor de picolé e um velhinho que ia passando)
“ — Olha o verde, olha o verde!” (cheiro-verde)
“ — E eu aqui conversando, perdi foi o marido!
— Agora foi pior! Inda mais que tá com o bode
no braço!!!” (vendedora e
freguesa conversando, quando uma dá pela falta do marido que saiu com a
carne de bode)
— Dê uma esmola pro cego taxista de Igapó, que foi assaltado e
furaram os dois olhos dele! (Fala do próprio cego, sentado sobre um caixote, no meio da feira) Juntas,
elas revelam um discurso quase cifrado, muito peculiar e até desconexo a
quem se coloca de fora do espaço, mas também muito rico e significativo
para quem participa dele. Para nós que chegamos de fora ou mesmo para o
comprador distraído, a feira parece ter uma linguagem própria, a
linguagem dos números, dos múltiplos e frações de reais, sejam eles
escritos ou anunciados verbalmente no grito. Mas um pouco mais de atenção
nos leva a perceber que ali também existem vozes que induzem a um diálogo
marcado pela troca de experiências, afirmando ciclicamente uma afinidade
cultural e social, pois o homem, ao tentar vender seu “produto”,
convida o outro a conhecê-lo, e estranhamente, mostra-se a si próprio
também, não como parte do produto, mas como garantia – pelo testemunho,
pela experiência, pela sua “marca” de narrador – de que vale a pena
adquiri-lo.
Convém ressaltar, aqui, as palavras de Walter Benjamin ao afirmar
que “a experiência passa de pessoa pra pessoa e é a fonte a que
recorrem todos os narradores”[5],
lembrando ainda os dois tipos arcaicos de narradores a que o autor de
refere: os sedentários e os viajantes, representando respectivamente o
saber do passado e o saber de lugares distantes. A interpenetração
desses dois grupos de narradores resultaria na “extensão real do reino
narrativo”[6].
Fala ainda Benjamin que durante o trabalho manual – atividade mecânica
que suscita a distensão psíquica do indivíduo – as narrativas
contadas e assimiladas perduram a fundo na memória, tanto dos contadores
quanto dos ouvintes. Transpondo o mesmo raciocínio para o espaço
contemporâneo da feira livre popular, não precisamos andar muito para
encontrar narradores em potencial de todos os grupos: itinerantes, sedentários,
mestres e aprendizes na arte de contar e ouvir estórias, já que nesse
sentido estamos em um espaço interativo, onde ambas as vozes têm a mesma
riqueza em experiência e memória. Encontramos também algumas atividades
intimamente associadas ao trabalho manual de que fala Benjamin: mulheres
fazendo crochê, sentadas ao lado das suas bancas, outras debulhando feijão
verde... Teriam elas algo para contar? Tivemos nas feiras por onde andamos a sensação de esbarrar de frente com personagens muito parecidos aos de Benjamin, os narradores que o autor julgou extintos, sufocados pela revolução industrial, pelas sucessivas transformações que atingiram as sociedades ainda no início deste século. De lá pra cá muito ocorreu, e muitas outras grandes e pequenas revoluções alcançaram – ainda que distintamente – todas as classes sociais. Mas ainda assim, em meio ao povo, sempre com “suas raízes no povo”[7], entre as coisas de ontem e de hoje, com um pé na tradição e outro no presente, parece que eles estão ali – parece que sempre estiveram ali –, seja no Alecrim ou em Currais Novos[8], na cidade ou no interior. E estão ali em dia, horário e endereço certo: dia de feira, onde “de tudo” a gente encontra...
Este trabalho resulta de visitas esporádicas, desde dezembro de 1997, às feiras do Alecrim e das Rocas (ambas em Natal/RN), onde comecei a anotar em caderneta as minhas primeiras observações, e de visitas posteriores, quando registrei as imagens e os fragmentos de diálogos, pregões e demais falas que se seguem — 16-10-98, na feira do Alecrim, e 19-10-98, na feira de Currais Novos, respectivamente nos municípios de Natal e Currais Novos, Rio Grande do Norte, nordeste brasileiro. Ana
Claudia Mafra è professora, mestre em Literatura Brasileira e
doutoranda em Literatura e Cultura pela Universidade Federal da Paraíba
- Brasil. [2].
Mangaeiros = pessoas que vendem ervas para chás, xaropes e outros remédios
caseiros. [3].
O alimento é retirado diretamente das sacas e pesada a quantidade que
o comprador quer. [4].
Tipo de xarope caseiro. [5].
BENJAMIN, Walter. Magia e técnica,
arte e política: ensaios sobre literatura e história da cultura.
Obras escolhidas. V. 1. Trad. Sérgio Paulo Rouanet. 4 ed. São Paulo:
Brasiliense, 1985 [1 ed.], p. 198. [6].
Idem, p. 199. [7].
Idem, p. 214. [8].
Alecrim = bairro de Natal, capital do Rio Grande do Norte. Currais
Novos = cidade do Rio Grande do Norte.
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