Giorno di mercato a Natal   

Al mercato di Alecrim puoi trovare di tutto: dal pesce fresco alle
bacinelle di plastica, dai sandali di cuoio alla merce d’importazione

 

di Ana Claudia Mafra

traduzione e adattamento di Raffaele Bella

(em portugues)

 


Per scrivere questa storia 
Devo molto pensare 
Sul mercato di qui 
Che è una cosa da ammirare 
Il tuo popolo si manifesta 
In una fiera come questa 
C’è di tutto da comprare. 

(A feira de Currais Novos, versi di Josefa Nazaré Alves - Currais Novos, RN) 

 

 

Questo lavoro nasce da visite saltuarie, a partire da dicembre 1997,  ai mercati do Alecrim e das Rocas (entrambi quartieri di Natal\ RN), dove ho cominciato ad annotare in un taccuino le mie prime osservazioni, e di visite successive, quando ho registrato le immagini e i frammenti di dialogo, pregões (grida dei venditori ambulanti) e tutte le altre espressioni che seguono  — 16.10.98  al mercato di Alecrim, e 19.10.98 alla fiera di Currais Novos, rispettivamente nei municipi di Natal e Currais Novos, Rio Grande do Norte; nordeste brasiliano. Per questa pubblicazione sulla rivista Musibrasil  utilizzo immagini scattate da me recentemente, il 21.6.03, al mercato di Alecrim.  

 

    Il giorno di mercato è giorno di festa. Questa è quasi sempre la prima impressione che riceviamo dai mercati all’aperto del Brasile. Nel Nordeste brasiliano, soprattutto, non mancano esempi di questo raduno quotidiano, collettivo e colorato. Puoi trovare di tutto al mercato: dal pesce fresco alle bacinelle di plastica, dai sandali di cuoio agli articoli d’importazione, ragion per cui è ancor oggi un punto d’intersezione di differenti fasce d’età e classi sociali, uno spazio che unisce la tradizione alla contemporaneità, adattandosi al tempo, amalgamando il ritmo elettronico della grande città alle sonore grida e pregões[2] dei venditori ambulanti, dei vecchi e dei bambini,  lavoratori e “disoccupati”,  tutti conosciuti,  tutti personaggi di uno stesso palco. Girovagare per i mercati e tentare di registrare visualmente e verbalmente  un poco della loro diversità, in grandi linee, è risultato un’ esperienza colma di sorprese, giacché la macchina fotografica e il taccuino in mano e l’impossibilità, per questo motivo, di passare inosservata di fronte a tutti , ha causato un contatto inusitato con i venditori: quasi tutti desideravano “apparire” nelle foto, mi chiedevano di tornare per mostrarle quando sarebbero pronte, e mi fermavano chiedendomi se si trattava di un reportage o di un lavoro scolastico. Alcuni, tuttavia, si nascondevano dinanzi alla macchina fotografica, - soprattutto i più vecchi - dicendosi sospettosi dei ritratti.    Una donna è persino arrivata a dirmi che fare fotografie attirava iettatura. Malgrado ciò, ho cercato di registrare alcuni momenti che, seppur lontani dal tradurre l’universo della ricchezza e diversità culturale di una fiera, cercano di rivelare all’ occhio di un osservatore distante per lo meno un minimo della sua bellezza, così peculiare.

Osservare il mercato sotto una prospettiva tradizionale: mangaeiros[3], erbivendoli, tabacco intrecciato, rapadura[4], dolce da vendere a chilo, ragazzini che vendono sacche confezionate a mano, oggetti di cuoio e terracotta, cotone per cucire, aghi, corda di sisal[5], polli vivi, cesti di paglia, miele casareccio, lambedor[6], cereali a granel[7], formaggio fresco, amido di mandioca, il cieco che chiede l’elemosina,  scambia e baratta, vecchietti che chiacchierano e ridono, folhetos[8] e almanacchi, viola e pandeiro[9]

Osservare il mercato con gli occhi di oggi: conserve, cibi in scatola, componenti di elettronica, ricambi d’automobile, di idraulica ed elettrici, prodotti industriali, indumenti “di marca“, sandali all’havaiana, scarpe da tennis rainha[10], articoli importati da 1.99 reais[11], carros de som[12], antenne di televisione, compact disc e musicassette pirata, dischi di vinile usati,  monelli, i successi musicali del momento, il venditore con il cellulare in pugno, la pubblicità del supermercato lì accanto…

Prospettive distinte solo superficialmente: al mercato tutto si mescola e tutto si trasforma. A sorpresa troviamo  il lambedor industriale e le conserve fatte in casa, la rapadura tipo esportazione e le antenne di televisione fatte con filo ritorto nel più genuino stile artigianale. Ci sono cose che troviamo solo al mercato. Ci sono cose che -  per incredibile che possa sembrare - si trovano anche al mercato. Tutto ciò fa del mercato un territorio contrassegnato dalla diversità e dai contrasti, sia sociali, culturali o economici. Il tempo e lo spazio si incrociano nel mercato  -  il passato e il presente, la campagna e la città, il mare e il sertão[13] - sono tutti lì presenti negli alimenti, nei modi, nelle abitudini, nell’interesse curioso per le novità. Malgrado la novità, della qualità e della specificità di certi articoli trovati nei mercati, non è difficile notare che non sempre sono il prezzo e la qualità del prodotto i principali motivi che spingono i consumatori a questi mercati all’aperto. L’ uomo del mercato generalmente porta da casa l’abitudine - quando è consumatore - o la professione - quando è mercante - e fa di questo un’ abitudine settimanale, malgrado, nello stesso tempo, condivida la comodità e i prezzi più competitivi dei grandi supermercati e negozi specializzati. I mercanti, prevalentemente, vivono in funzione di questo commercio specifico,  tenendo conto della sua natura itinerante, che varia un poco a seconda del “grado di urbanizzazione” del territorio. In città “grandi”, ossia nelle città con più popolazione e più urbanizzate, i mercati si tengono nei quartieri, generalmente in quelli più antichi e più “popolari” - e sempre nello stesso giorno della settimana. Così, per ogni giorno della settimana, è possibile che in qualche quartiere di Natal, Fortaleza, Recife o João Pessoa, per esempio, ci sia una un mercato libero.  

Già in città più piccole, nei municipi e distretti più distanti dai centri urbani, i mercati all’aperto sono parzialmente fissi, giacchè alcuni commercianti - generalmente quelli che vendono carne, legumi, frutta e verdura, - vendono lì i loro prodotti tutti i giorni della settimana. Ma il mercato completo continua a seguire lo stesso calendario settimanale, ed è solo nel “giorno di mercato” che la riunione è completa. Ai venditori permanenti, (generalmente abitanti della città), si uniscono gli ambulanti, i visitatori, i clienti, quelli che si trovano lì solo a passeggio… e con loro una infinità di prodotti delle più diverse regioni.

Camion, camioncini e anche automobili servono per il trasporto dei prodotti, per non parlare della  carriola , così utile per trasportare merce, esporla per la vendita o anche per trasportare le compere di quella cliente che abita vicino al mercato, e che rende una mancia in più al portabagagli. Oppure in bicicletta, che in molte città della   campagna il principale e più efficiente mezzo di trasporto: economica, funziona senza benzina e quasi tutti la possono usare. Chi ne possiede una è padrone di un bene praticamente comunitario. Nei mercati all’aperto di queste città esistono spazi  espressamente dedicati a loro e si può anche andare al mercato in bicicletta e “parcheggiarla” lì , dove c’è sempre un ragazzino pronto a tenere d’occhio il veicolo, per una mancetta,  è logico. I mercati sono luoghi sonori per natura. La riunione pubblica e gratuita di persone intorno a due obiettivi molto vicini - vendere e comprare -  non poteva dare altro risultato che non fosse musica. E la musica del mercato è la riunione di tutti i suoni, tutte le voci e le grida dei mercanti, pregões, frasi cantate, sommate alle musiche degli altoparlanti , dei carros-de-som, dove registratori al massimo volume suonano le musicassette in vendita, la gente che parla, la gente che si incontra, gente che mette in ballo l’ argomento della settimana, voci delle quali riusciamo a distinguere pochi frammenti:

“— Compra amido per tua suocera! fai un favore a tua suocera, chè io non glielo ho fatto, ho perso mio marito, e guarda un po’ come mi è andata a finire!” 

“— Un limone, tre limoni, un limone, tre limoni, un limone, tre limoni…“ 

“— Chi vuole mangiare foresta, venga qui!” (venditore di lattuga) 

“— Picolè[14] del gustosino, di cocco e di arachidi…” 

“— Ei, c’è gelatino d’ acqua?” (conversazione tra un venditore di picolè e un vecchietto di passaggio) 

“— Guarda che verde! guarda che verde!” (erbe aromatiche, N. d. T.) 

“— E chiacchierando, ho perso mio marito!” 

“— Ancora peggio adesso! Che sta con l’abbacchio sotto il braccio!!!” (venditrice e cliente donna che chiacchierano, quando una si lamenta per l’assenza del marito che è andato via con la carne d’abbacchio).

“— Date un’ elmosina al cieco tassista di Igapò, che è stato assaltato e hanno accecato i suoi occhi!” (detto dallo stesso cieco, seduto su una cassa, in mezzo al mercato)

Unite, esse rivelano un discorso quasi cifrato, molto particolare e persino sconnesso per chi si pone fuori dallo spazio, ma anche molto ricco e significativo per chi ne è partecipe. Per noi che veniamo da fuori o anche per un compratore distratto, il mercato sembra avere un linguaggio proprio, un linguaggio di  numeri, di multipli e frazioni di reais, scritti o annunciati verbalmente gridando. Ma un poco d’attenzione ci porta ad accorgerci che anche lì esistono voci che inducono a un dialogo marcato dallo scambio di esperienze, affermando ciclicamente un’ affinità culturale e sociale, poiché è l’uomo, nel tentare di vendere il suo ”prodotto, che  invita l’altro a conoscerlo e, curiosamente,  si rivela anche  a sé stesso, non come parte del prodotto, ma come garanzia - per la testimonianza, per l’esperienza, per la sua “impronta” di narratore -  che vale la pena acquistarlo.

E’ il caso di mettere qui in risalto le parole di Walter Benjamin quando afferma che “l’esperienza passa da persona a persona ed è la fonte alla quale ricorrono tutti i narratori”[15], ricordando ancora i due tipi arcaici di narratori ai quali l’autore fa riferimento: i sedentari e i viaggiatori, che rappresentano rispettivamente il sapere del passato e il sapere dei luoghi lontani. L’interpretazione di questi due gruppi di narratori risulterebbe nell’ “estensione reale del regno narrativo”[16]. Dice inoltre Benjamin che durante il lavoro manuale - attività meccanica che suscita la distensione psichica dell’ individuo -  le narrative raccontate e assimilate perdurano a fondo della memoria , sia dei narratori sia degli ascoltatori. Trasponendo lo stesso processo mentale nello spazio contemporaneo del libero mercato popolare, non abbiamo bisogno di camminare molto per incontrare potenziali narratori di tutti i gruppi:  itineranti, sedentari, maestri e apprendisti nell’arte di raccontarte e ascoltare storie, giacchè in tal senso siamo in uno spazio interattivo, dove entrambe le voci hanno la stessa ricchezza d’esperienza e memoria. Troviamo anche alcune attività intimamente associate al lavoro manuale di cui parla Benjamin: donne che fanno merletti, sedute accanto ai loro banchi, altre che sbucciano granturco… Avrebbero qualcosa da raccontare?

Nei mercati che abbiamo visitato è stata forte la sensazione di trovarci faccia a faccia con personaggi molto simili a quelli di Benjamin, i narratori che l’autore pensò estinti, soffocati dalla rivoluzione industriale, dalle successive trasformazioni che hanno colpito le società già all’ inizio del ventesimo secolo. Da allora a oggi molte cose sono successe, e molte altre grandi e piccole rivoluzioni hanno raggiunto - anche se in modo differenziato - tutte le classi sociali. Ma anche così, in mezzo al popolo, sempre con “le sue radici nel popolo”[17], tra le cose di ieri e quelle di oggi, con un piede nella tradizione e l’altro nel presente, sembra che loro siano  sempre stati lì - sia nell’ Alecrim sia nel Currais Novos, in città come nella campagna. E stanno lì in un giorno, orario e indirizzo esatto:  giorno di mercato, dove troviamo “di tutto”.

 

Ana Claudia Mafra è docente, master in Letteratura brasiliana e dottoranda in Letteratura e Cultura presso l’Università federale dello stato di Paraìba - Brasile. 

Raffaele Bella è giornalista e collaboratore del quotidiano "Il manifesto".

 

 


[2]. Specie di gridi cantanti dei venditori ambulanti.

[3]. Persone che vendono erbe per infusi, sciroppi e altre medicine tradizionali.

[4]. Estratto solidificato in tavolette del succo della canna da zucchero, alimento largamente diffuso nel nordeste brasiliano, ndt.

[5]. Fibra vegetale assai resistente tratta dall’ agave, usata nell’allestimento di costruzioni rurali, ndt.

[6]. Tipo di sciroppo fatto in casa.

[7]. L’ alimento è prelevato direttamente dai sacchi e viene pesata la quantità richiesta dal compratore.

[8]. Piccoli opuscoli di poeti popolari, importante capitolo della letteratura popolare brasiliana, ndt.   

[9]. Sorta di arcaica chitarra diffusa in tutto il Brasile e tamburello a sonagli, ndt.

[10]. Marca assai popolare, ndt.

[11]. Il real, plurale reais, è il nome della moneta brasiliana, ndt.

[12]. Piccoli camion che diffondono musica, ndt.

[13]. Zona lontana del’ mare, di clima caldo e secco.

[14]. Gelatino da passeggio artigianale, ndt.

[15]. Benjamin, Walter. “O narrador: considerações sobre a obra de Nicolai Lescov”. In: Magia e tècnica, arte e polìtica: saggi sulla letterratura e storia della cultura. Opere scelte. V.1. Trad. Sèrgio Paulo Rouanet. 4 ed. São Paulo: Brasiliense, 1985 [1 ed.], pp. 197-221, p.198.

[16]. Idem, p.199.

[17]. Idem, p.214.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(em portugues)

 

 

 

 

Dia de Feira*

 

por Ana Claudia Mafra 1

 

Pra escrever essa história

Tenho que muito pensar

É sobre a feira daqui

Que é coisa de admirar

Seu povo se manifesta

Numa feira como esta

De tudo tem pra comprar.

(A feira de Currais Novos,

 versos de Josefa Nazaré Alves – Currais Novos, RN)

 

 

         Dia de feira é dia de festa. A primeira impressão que temos das feiras livres no Brasil é quase sempre esta. No nordeste brasileiro, sobretudo, não faltam exemplos dessa reunião quotidiana, coletiva e colorida. De tudo você pode encontrar na feira: do peixe fresco aos plásticos, da sandália de couro aos importados, razão pela qual é ainda hoje um ponto de interseção de diferentes idades e classes sociais, um espaço que une a tradição à contemporaneidade sempre adaptando-se ao tempo, incorporando o ritmo eletrônico da cidade grande aos sonoros gritos e pregões dos ambulantes, vendedores, fregueses, dos velhos e meninos, trabalhadores e “desocupados”, todos conhecidos, todos personagens de um mesmo palco.

         Andar pelas feiras e tentar registrar visual e verbalmente um pouco da sua diversidade, em amplos aspectos, resultou numa experiência repleta de surpresas, pois a câmera e a caderneta nas mãos e a impossibilidade de, por isso, passar despercebida diante de todos, gerou um contato inusitado com os feirantes: todos queriam “aparecer” nas fotos, me pediam para voltar e mostrá-las depois de prontas, e me paravam perguntando se era reportagem ou trabalho “para escola”. Alguns se esconderam diante da câmera — principalmente os mais velhos —, dizendo-se “cismados” com retratos. Uma mulher chegou mesmo a me dizer que tirar fotos dava azar. Ainda assim, procurei registrar alguns momentos que, mesmo estando longe de traduzir o universo de riqueza e diversidade cultural de uma feira, tentam revelar aos olhos do observador distante ao menos um mínimo de sua beleza tão peculiar.

Olhar a feira sob uma perspectiva tradicional: mangaeiros[2], verdureiros, fumo de rolo, rapadura, doce no quilo, meninos vendendo sacolas confeccionadas à mão, utilitários de couro e barro, linha, agulha, corda de sisal, galinha viva, balaio de palha, mel de furo, lambedor, cereais “a granel[3]”, queijo fresco e goma de mandioca, cego pedindo esmola, troca-troca, velhinhos conversando e rindo, folhetos e almanaques, viola e pandeiro...

         Olhar a feira com os olhos de hoje: conservas, enlatados, equipamentos eletrônicos, peças de automóveis, hidráulicas e elétricas, produtos industrializados, roupas “de marca”, sandália “havaiana”, tênis “rainha”, importados de R$1.99, carros de som, antenas de TV, cds e fitas K7 piratas, discos de vinil usados, gibis, os sucessos musicais do momento, o vendedor de celular em punho, a propaganda do supermercado ao lado...

         Perspectivas distintas apenas superficialmente: na feira tudo se mistura e tudo se transforma. De repente encontramos o lambedor[4] industrializado e as conservas feitas em casa, a rapadura tipo exportação e as antenas de TV feitas com fio retorcido, no mais autêntico estilo artesanal. Tem coisa que a gente só encontra na feira. Tem coisa que a gente – por incrível que pareça – também encontra na feira. Tudo isso faz da feira um território marcado pela diversidade e pelos contrastes, sejam eles sociais, culturais ou econômicos. Os tempos e os espaços se cruzam na feira – o passado e o presente, o campo e a cidade, o mar e o sertão, todos estão ali presentes nos alimentos, nos olhares casuais, no jeito sempre à vontade dos feirantes, nos modos, costumes, no interesse curioso pelas novidades.

         Apesar da diversidade, da qualidade e da especificidade de certos itens encontrados nas feiras, não é difícil notar que nem sempre são o preço e a qualidade do produto os principais motivos que levam os consumidores a esses mercados livres. O homem da feira geralmente traz de casa o costume – quando consumidor – ou a profissão – quando feirante –, e faz disso um hábito semanal, embora também compartilhe da comodidade e dos preços mais competitivos dos grandes supermercados e lojas especializadas. Os feirantes, principalmente, vivem em função deste comércio específico, tendo em vista sua natureza itinerante, que varia um pouco de acordo com o “grau de urbanização” dos territórios. Em cidades “grandes”, ou seja, nas cidades maiores e mais urbanizadas, as feiras acontecem em bairros – geralmente nos bairros mais antigos ou mais “populares” – e sempre no mesmo dia da semana. Assim, para cada dia da semana é possível que em algum lugar de Natal, Fortaleza, Recife ou João Pessoa, por exemplo, haja uma feira livre funcionando. Já em cidades menores, nos municípios e distritos mais afastados dos centros urbanos, as feiras livres são parcialmente fixas, pois alguns comerciantes – geralmente os que comercializam carnes, legumes, frutas e verduras – vendem ali seus produtos todos os dias da semana. Mas a feira completa continua seguindo o mesmo calendário semanal, e é só no “dia da feira” que a reunião está completa. Aos vendedores fixos (geralmente moradores da cidade), juntam-se os itinerantes, os visitantes, os fregueses, os que estão ali só a passeio... e com eles uma infinidade de produtos das mais diversas regiões.

         Caminhão, caminhonete, até carro menor serve para o transporte dos produtos, para não falar no carrinho de mão, que tanto serve para trazer a mercadoria, expô-la para venda ou mesmo levar as compras daquela freguesa que mora mais pertinho da feira, rendendo ainda um trocado para o carregador. Ou na bicicleta, que em muitas cidades do interior constitui o principal e mais eficiente meio de transporte: barata, funciona sem combustível e quase todo mundo pode usar - quem tem uma é dono de um bem praticamente comunitário. Nas feiras livres dessas cidades existem espaços especialmente reservados a elas. Neles qualquer um pode comprar, vender consertar, equipar, incrementar ou trocar a sua bicicleta por um modelo mais conveniente. E pode também ir à feira de bicicleta e “estacioná-la” ali, onde sempre vai haver um menino pronto para tomar conta do veículo, por um trocadinho, é lógico.

         As feiras são lugares sonoros por natureza. A reunião pública e gratuita de pessoas em torno de dois objetivos muito próximos – vender e comprar – não poderia resultar em outra coisa que não fosse música. E a música da feira é a reunião de todos os sons, todas as vozes em gritos, pregões, frases cantadas, somadas às músicas dos alto-falantes, dos carros de som, dos gravadores em último volume tocando as fitas K7 que estão à venda, gente conversando, gente se encontrando, gente pondo o assunto da semana em dia..., vozes das quais conseguimos distinguir poucos fragmentos:

 

            “ — Compre goma pra sua sogra! Agrade sua sogra, que eu não agradei, perdi meu marido, e olhe só onde eu vim parar!”

 

            “ — Um limão, três limão, um limão, três limão, um limão, três limão...”

 

            “ — Quem quiser comer mato, venha pra cá!” (vendedor de alface)

 

            “ — Picolé do gostosinho, do coco e do amendoim...

               — Ei, tem picolé de água?” (conversa entre o vendedor de picolé e um velhinho que ia passando)

 

            “ — Olha o verde, olha o verde!” (cheiro-verde)

 

            “ — E eu aqui conversando, perdi foi o marido!

            — Agora foi pior! Inda mais que tá com o bode no braço!!!” (vendedora e freguesa conversando, quando uma dá pela falta do marido que saiu com a carne de bode)

 

            — Dê uma esmola pro cego taxista de Igapó, que foi assaltado e furaram os dois olhos dele! (Fala do próprio cego, sentado sobre um caixote, no meio da feira)

 

Juntas, elas revelam um discurso quase cifrado, muito peculiar e até desconexo a quem se coloca de fora do espaço, mas também muito rico e significativo para quem participa dele. Para nós que chegamos de fora ou mesmo para o comprador distraído, a feira parece ter uma linguagem própria, a linguagem dos números, dos múltiplos e frações de reais, sejam eles escritos ou anunciados verbalmente no grito. Mas um pouco mais de atenção nos leva a perceber que ali também existem vozes que induzem a um diálogo marcado pela troca de experiências, afirmando ciclicamente uma afinidade cultural e social, pois o homem, ao tentar vender seu “produto”, convida o outro a conhecê-lo, e estranhamente, mostra-se a si próprio também, não como parte do produto, mas como garantia – pelo testemunho, pela experiência, pela sua “marca” de narrador – de que vale a pena adquiri-lo.

         Convém ressaltar, aqui, as palavras de Walter Benjamin ao afirmar que “a experiência passa de pessoa pra pessoa e é a fonte a que recorrem todos os narradores”[5], lembrando ainda os dois tipos arcaicos de narradores a que o autor de refere: os sedentários e os viajantes, representando respectivamente o saber do passado e o saber de lugares distantes. A interpenetração desses dois grupos de narradores resultaria na “extensão real do reino narrativo”[6]. Fala ainda Benjamin que durante o trabalho manual – atividade mecânica que suscita a distensão psíquica do indivíduo – as narrativas contadas e assimiladas perduram a fundo na memória, tanto dos contadores quanto dos ouvintes. Transpondo o mesmo raciocínio para o espaço contemporâneo da feira livre popular, não precisamos andar muito para encontrar narradores em potencial de todos os grupos: itinerantes, sedentários, mestres e aprendizes na arte de contar e ouvir estórias, já que nesse sentido estamos em um espaço interativo, onde ambas as vozes têm a mesma riqueza em experiência e memória. Encontramos também algumas atividades intimamente associadas ao trabalho manual de que fala Benjamin: mulheres fazendo crochê, sentadas ao lado das suas bancas, outras debulhando feijão verde... Teriam elas algo para contar?

         Tivemos nas feiras por onde andamos a sensação de esbarrar de frente com personagens muito parecidos aos de Benjamin, os narradores que o autor julgou extintos, sufocados pela revolução industrial, pelas sucessivas transformações que atingiram as sociedades ainda no início deste século. De lá pra cá muito ocorreu, e muitas outras grandes e pequenas revoluções alcançaram – ainda que distintamente – todas as classes sociais. Mas ainda assim, em meio ao povo, sempre com “suas raízes no povo”[7], entre as coisas de ontem e de hoje, com um pé na tradição e outro no presente, parece que eles estão ali – parece que sempre estiveram ali –, seja no Alecrim ou em Currais Novos[8], na cidade ou no interior. E estão ali em dia, horário e endereço certo: dia de feira, onde “de tudo” a gente encontra...


 

 


Este trabalho resulta de visitas esporádicas, desde dezembro de 1997, às feiras do Alecrim e das Rocas (ambas em Natal/RN), onde comecei a anotar em caderneta as minhas primeiras observações, e de visitas posteriores, quando registrei as imagens e os fragmentos de diálogos, pregões e demais falas que se seguem — 16-10-98, na feira do Alecrim, e 19-10-98, na feira de Currais Novos, respectivamente nos municípios de Natal e Currais Novos, Rio Grande do Norte, nordeste brasileiro.

Ana Claudia Mafra è professora, mestre em Literatura Brasileira e doutoranda em Literatura e Cultura pela Universidade Federal da Paraíba - Brasil.

[2]. Mangaeiros = pessoas que vendem ervas para chás, xaropes e outros remédios caseiros.

[3]. O alimento é retirado diretamente das sacas e pesada a quantidade que o comprador quer.

[4]. Tipo de xarope caseiro.

[5]. BENJAMIN, Walter. Magia e técnica, arte e política: ensaios sobre literatura e história da cultura. Obras escolhidas. V. 1. Trad. Sérgio Paulo Rouanet. 4 ed. São Paulo: Brasiliense, 1985 [1 ed.], p. 198.

[6]. Idem, p. 199.

[7]. Idem, p. 214.

[8]. Alecrim = bairro de Natal, capital do Rio Grande do Norte. Currais Novos = cidade do Rio Grande do Norte.