(versione
in portoghese)
Un
libro uscito l’anno scorso in Brasile porta un titolo allo
stesso tempo suggestivo e inquietante: “O Brasil nao è
para principiantes” (Il Brasile non è per principianti).
A prima vista l'intestazione potrebbe suggerire una certa
pedanteria o provocare l’ispido allontanamento dei neofiti dai
meandri e dai chiaroscuri della “brasilianità”. Niente di
tutto ciò. Il libro, grazie al contributo di pensatori (non uso
il termine “intellettuali” per non confonderli con quelle
figure che appaiono con insistenza nei talk-show televisivi)
quali Roberto Cardoso de Oliveira, Otavio Velho, Livia
Barbosa, tra gli altri, che hanno reso omaggio ai
vent’anni della pubblicazione del libro dell’antropologo Roberto
Da Matta, “Carnavais, malandros e herois”
(Carnevali, malfattori e eroi), pubblicato per la prima volta
nel 1979, e ristampato in diverse edizioni in inglese e
francese. Semplicemente il titolo ci richiama l'attenzione
ancora una volta sul fatto che, davanti ad una realtà così
complessa come quella brasiliana, allo stesso tempo specifica e
a volte così universale, i tentativi di avvicinamento e di
comprensione del paese devono essere scandite dalla fuga dalla
linearità e dalla diretta e acritica applicazione di nozioni o
modelli teorici elaborati migliaia di miglia marittime da qui.
E non sono pochi i brasiliani che avrebbero bisogno, già
da un po’ di tempo, di dare ascolto a questo. Alla fine la
contraddizione ed il paradosso, oltre ad altre cose, sembrano
proprio costituire alcuni dei nostri tratti più caratteristici.
Non è certo per caso che collegandoci con le specificità del
nostro scenario, il barocco qui da noi non fu uno stile
artistico passeggero, ma tracciò un solco profondo, autentico e
schietto nella vita brasiliana. Tale affermazione meriterebbe
ulteriori spiegazioni e approfondimenti che richiederebbero
maggior spazio, tempo e impegno. Pertanto, senza voler abusare
della pazienza del lettore, vale la pena ricordare almeno questo
concetto: chi oggi cammina per le nostre strade e piazze,
frequenta le nostre case, assaggia la nostra cucina, danza i
nostri ritmi, osserva o assiste ai nostri riti o semplicemente
partecipa, seduto in veranda, a una pigra conversazione serale,
deve anzitutto sapere che il barocco qui è il presupposto di
tutta una nuova sintesi culturale.
Secondo
lo storico Nicolau Sevcenko, un profonda dimensione
barocca contraddistingue tutta la storia brasiliana,
attraversando con i suoi fremiti e i suoi echi le più
differenti manifestazioni della cultura di questo paese: la
convivenza delle diversità, l’impulso della contraddizione,
la cupidigia di potere, l’illusione di grandezza, le ansie
messianiche, il sogno di gloria, l’attrazione per la
tentazione, il fascino dell’affabulazione, la propensione per
la ridondanza e la grandiosità, il gusto per la tragedia,
l’orrore della miseria e la compulsione per la speranza.
Insomma, siamo “il paese del futuro”, da sempre.
Naturalmente, il limitarsi a prendere in considerazione il
nostro barocchismo latente non è sufficiente per capire questa
società. Ma aiuta. Non vi è niente di più contraddittorio o
paradossale di un paese che prende il nome da un albero, e che
distrugge le proprie foreste. Il nostro modello di sviluppo (non
soltanto il nostro, ovviamente) porta al depauperamento e alla
miseria - modello che articolato alla nostra localizzazione
periferica e subalterna, ci porta ad essere tra i maggiori paesi
esportatori di capitali del mondo. Detentore di un enorme parco
industriale e, quasi sempre, maggior esportatore agricolo, il
paese possiede una delle maggiori quote di persone indigenti.
Dominiamo le tecnologie dei lanci aerospaziali e conosciamo
sofisticatissime tecniche di chirurgia plastica, e al tempo
stesso milioni di brasiliani godono il privilegio di lottare
contro malattie medievali. Pur contando sul maggior volume di acqua potabile ed energia
elettrica, il brasiliano affronta la sete e il razionamento di
energia elettrica. Le contraddizioni non sono certo sorte oggi,
ma niente sembra suggerirci che sapremo vivere senza di esse.
Qui, nel secolo XVII, la scoperta del più grande giacimento mai
visto di oro e diamanti portò all’opulenza del barocco del
Minas Gerais e alla fame e all’aggravamento delle condizioni
sociali di esistenza. Una volta diventato indipendente, il paese
non perse il proprio statuto coloniale, che fu rinnovato col
passare degli anni. Adottò il regime monarchico e pose una
corona sopra una testa portoghese. Mantenne fino allo sfinimento
la più longeva e poderosa macchina schiavista del continente
convivendo contemporaneamente con gli ideali liberali. Poi
rovesciò la monarchia di fronte ai risentimenti prodotti
dall’abolizione della schiavitù e si costituì come
repubblica oligarchica. In seguito a una serie di colpi di stato
e a successioni di regimi, ora di ispirazione fascista, ora
populista, ora sotto il dominio delle caserme, il paese si è
recentemente imbattuto nel consolidamento di un regime
democratico all’interno del quale più di cento milioni di
elettori non trovano piena cittadinanza (come sempre enfatizzava
il geografo Milton Santos, il termine “cittadino” non
si racchiude nella figura di elettore o di consumatore - questi
ultimi possono esistere indipendentemente dal primo). La cifra
delle nostre contraddizioni è indefinita. Ultimi nel continente
ad abolire il regime schiavista, siamo stati i primi al mondo a
presentarci come “democrazia razziale”, introducendo uno dei
razzismi più difficili da combattere perché perfidamente
camuffato. Un paese che si vanta del calore umano del proprio
popolo, “cordiale e pacifico”, vigilato da forze
dell’ordine che si classificano al gradino più alto sul podio
delle più violente del pianeta. I dati parlano da sé: dal 1996
a oggi il numero di vittime per mano della Polizia Militare (PM)
a San Paolo sono cresciuti costantemente. Furono 368 in
quell’anno, contro 749 nel 2000. Qualche spirito torvo
potrebbe commentare: però è già un miglioramento, perché nel
1992 la Polizia Militare paulista ne uccise 1264 nei primi dieci
mesi dell’anno. E allora basti ricordare che nel 1981, durante
il regime militare, il numero di uccisioni per mano poliziesca,
già considerato molto alto per allora, fu di 129. Bei tempi,
quelli. La violenza, soprattutto la criminalità violenta, è un
tema costante quando si parla di realtà brasiliana. “Haja
barroquismo”! Prodotto e produttore di innumerevoli altri
problemi nazionali, la violenza è consueta destare lacrime,
indignazione, odio, rancore e alti tassi di audience. In non
pochi programmi TV tutto ha potere contro costei: perfino il
peggiore e sfacciato affronto ai diritti elementari della
persona. Però siamo solidali. Solidali con discernimento.
Sappiamo fare la differenza tra chi merita e chi non, ed
i programmi televisivi ci hanno aiutato in questo compito: la Rede
Globo con il suo programma Criança Esperança
(bambini speranza) continua anno dopo anno a raccogliere presso
i telespettatori milioni di dollari per salvare i bambini
brasiliani. Commovente. Nel frattempo, questi stessi
telespettatori applaudono il glorioso impegno della nostra
polizia quando usano la necessaria energia (“energia” e non
“violenza”, sia ben chiaro!) per eliminare dal territorio
quei soggetti con meno di diciotto anni che approfittano della
propria minorità per molestare o assaltare la classe media
negli autobus e ai semafori. Questi ultimi noi li definiamo
“minori”. Sarà necessario molto pudore per riconoscere
nell’uso differenziato dei termini “bambino” e
“minore” una distinzione ideologica che oscura
un’ignominiosa relazione di disuguaglianza e violenza sociale?
Individui della stessa fascia di età possono essere o smettere
di essere “bambini” e diventare “minori” secondo
differenti contesti. Non
raramente, per i “bambini” si riserva, oltre ad altre cose,
la solidarietà, l’attenzione, l’affettività e una cura
tutta speciale da parte del mercato (giocattoli, prodotti
alimentari, parchi tematici di divertimento, ecc.), mentre per
il “minore” sono predisposti di preferenza gli apparati di
repressione, le pagine poliziesche dei giornali e, nei migliori
dei casi, certe organizzazioni volte a determinate azioni di
“appoggio al minore bisognoso”.
Vige
nel paese un’autentica divisione sociale della paura. I
differenti settori sociali esperimentano distinte sensazioni di
paura. Ognuno si difende come può e l’industria della
sicurezza è una di quelle che non sa cosa è la crisi. Secondo
una stima della Banca Interamericana di Sviluppo (BID), ci sono
in Brasile circa 1,5 milioni di persone (circa cinque volte
l’effettivo delle Forze Armate) che lavorano come agenti di
sicurezza o guardie giurate private; e soltanto un terzo di loro
lavora in istituti autorizzati. Un numero significativo di
questi irregolari è composto da poliziotti che lavorano nel
proprio tempo libero, facendo quel che chiamiamo “bico”, il
che è proibito dal Regolamento Disciplinare della Polizia
Militare. Ma quasi nessuno è punito per questo.
Oltre a ciò, gli istituti di vigilanza privata hanno
l’abitudine di assumere buona parte dei poliziotti allontanati
dal servizio perché colpevoli, tra l'altro, di abuso di autorità,
di consumo di droga e di coinvolgimento in attività criminose.
E’ importante ricordare, ancora, che nessuno di questi dati
riguarda le guardie giurate che operano isolatamente, senza
vincoli con alcun istituto, autorizzato o no. Si sbagliavano
quelli che pensavano che i “capangas” ed i “jagunços”,
figure importanti della nostra letteratura, fossero cose di un
tempo che abbiamo lasciato indietro. Nelle loro nuove vesti
continuano ad esistere in determinate sedi con il nome di
“controllers”. Molto più chic. Tutto questo impegno sulla
sicurezza ha un risvolto economico non indifferente. A dispetto
della sistematica diminuzione delle spese pubbliche nell’area
della sicurezza, l’esplosione delle spese private ha invece
fatto sì che, lo scorso anno, la spesa totale in tale settore
corrispondesse al 10% del PIL brasiliano. Nel 1995, era il 6,5%.
Non è per caso che il Brasile, in materia di impiego diffuso di
sofisticatissimi sistemi di sicurezza, si trovi dietro soltanto
agli Stati Uniti ed alla Colombia. Non ci accontentiamo più,
soltanto, di feroci e allenati cani da guardia o di muri sempre
più alti ed elettrificati. Il nostro “barocchismo” chiede
di più. Ci difendiamo da furti e sequestri anche con avanzati
sistemi di rilevamento via satellite; molti usano l’elicottero
per arrivare al lavoro; chip sono messi sotto la pelle bianca,
ma abbronzata, di molta gente elegante. Nella sola città di S.
Paulo ci sono più di 25.000 residenze dotate di moderni
circuiti interni di TV. Nell’intero paese si contano più di
3,3 mila macchine blindate, e la classe media comincia a
comperare le proprie. Non sono contabilizzate le spese con
psicologi che operano contro le conseguenze dell’ondata di
insicurezza che coinvolge soprattutto bambini e adolescenti,
sempre più stressati e ansiosi a causa della violenza urbana.
Tale ansia fa sì che, nelle città, nascano come funghi dopo la
pioggia giganteschi shopping centers e lussuosi complessi
residenziali chiusi, come vere fortezze. Ma sono funghi
carnivori, visto che per edificarli privatizzano spazi che erano
pubblici, con gravi impatti sociali, urbanistici ed ecologici.
Nello stesso tempo, chi vive sotto totale insicurezza sono gli
abitanti delle periferie e delle favelas. Senza contare
le innumerevoli e triviali difficoltà affrontate da qualsiasi
popolazione che viva sotto un ordinamento socioeconomico
perverso, tali abitanti vivono sotto minaccia costante da parte
dei leader del narcotraffico, da una parte, e, dall’altro, da
quei poliziotti che vedono nell’osservanza della legge e nel
rispetto dei diritti umani un ostacolo alla lotta contro il
crimine. Senza parlare dei poliziotti coinvolti direttamente nel
traffico di droga o in altre innumerevoli attività illegali.
Soltanto nella città di Rio de Janeiro, sono circa 700 mila le
persone che sopravvivono nelle favelas, senza alcuna
garanzia delle libertà più elementari, come il diritto di
andare e tornare; di libera organizzazione e di espressione. Non
dimentichiamo anche il diritto ad una degna abitazione, del
quale la maggioranza dei brasiliani è totalmente esclusa. Allo
stesso tempo, la stampa sembra notare soltanto lo sconforto dei
settori medi ed alti della popolazione. Non è raro trovare
frase così: “Sabato notte gli abitanti di Copacabana e
Ipanema che vivono vicino alla favella Pavao-Pavaozinho hanno
avuto il sonno disturbato da sparatoria tra trafficanti che
disputano il controllo dell’”area”. Sarebbe sensato
domandarsi come hanno dormito gli abitanti di quella favela? Diventa sempre più difficile non dare ragione al giornalista
Janio de Freitas, secondo il quale la stampa brasiliana
rappresenta uno dei maggiori ostacoli al consolidamento della
democrazia in Brasile. Niente male. “Quelli in alto”, la
classe dirigente, ha paura di perdere il potere ed i suoi
privilegi. I settori dominanti temono per le proprie ricchezze e
hanno timore che le proprie vite siano chieste in cambio di tali
beni. I settori medi temono la corruzione, proiettili vaganti,
assalti, incidenti stradali, la disoccupazione, la
proletarizzazione, ed il malumore dei mercati finanziari che
portano via loro i sogni di ascesa facile. ”Quelli di sotto”
temono le catastrofi naturali che distruggono i loro quartieri
sprovvisti di infrastruttura, la “disoccupazione
tecnologica”, la morte civile, la caduta nella marginalità
(!) o il diventare esclusi, la miseria e l’arbitrarietà dei
poteri formali o informali, tanto nelle città come nella
campagna.
L’inventario
dei timori, però, è ancora più complesso. Senza pretesa di
elencarli tutti, abbiamo anche paure trasversali, che non
conoscono barriere di classe, anche se hanno a che fare con
esse. Tali timori possono interessare, anche se con differenti
intensità, i più differenti settori sociali a seconda della
fascia di età, il colore della pelle, lo stile di vita, il
genere, l’orientamento sessuale, il domicilio, ecc. Esistono
innumerevoli spiriti terrorizzati dalla minaccia di perdere la
bellezza e la gioventù, dall’infarto o dal cancro,
dall’aids, dal fracasso sessuale o per una non realizzazione
sentimentale. A questi ultimi pavidi la società, anzi sarebbe
meglio dire il mercato, offre tutta una gamma di prodotti,
servizi e specialisti: accademie di ginnastica, letteratura di self-helping,
periti in felicità sessuale, in quella amorosa, quella chimica,
e così via. Purtroppo
tutto questo apparato per la salvezza personale, come fa notare
lo psicanalista Jurandir Freire Costa, non serve
per procurare quella minima serenità necessaria al sentimento
di soddisfazione individuale. Secondo Costa, gli attuali ideali
e stili di vita e consumo paralizzano gli individui in uno stato
di ansietà permanente, in gran parte responsabile
dell’incapacità che questi “famelici di felicità” hanno
di guardare altro che non il proprio ombelico. Cercando sempre
di eludere le discussioni circa i valori ed il quadro sociale e
istituzionale del paese, le élite rifiutano di accettare
qualunque domanda circa i propri privilegi e stili di vita. Non
sorprende, così, la permanenza del trinomio “droga, sexo e
cred card” come principale comandamento del catechismo della
crema della società brasiliana. Purtroppo, le vite seguono le
strade possibili, e pure nemmeno “sempre reinventate”, come
consigliava Cecilia Meireles, però almeno proiettate
nell’imprevisto delle contingenze e legate al groviglio della
verità profonda dei nostri sogni e fantasie, individuali e
collettive. E poi non si parlava di barocco?
L'autore
è docente di Sociologia e altre materie presso il Centro
Universitario di Brasilia (UniCEUB) e l'Istituto di Educazione
Superiore di Brasilia (IESB)
(Versao
em portugues)
|
“Os principiantes, o barroco
e a violência: quem tem medo no Brasil?
por
Rogerio Diniz Junqueira *
|
Um
livro publicado no Brasil no ano passado leva um título ao
mesmo tempo sugestivo e inquietante: “O Brasil não é para
principiantes”. À primeira vista, o título poderia sugerir
um certo pedantismo ou um ríspido afastamento de todos aqueles
que não fossem iniciados nos meandros e nos melindres da “brasilianidade”.
Nada disso. O livro, que conta com as contribuições de
pensadores (não digo « intelectuais » para não
confundir com aquelas figuras que insistentemente aparecem nos
talk shows televisivos) do porte de Roberto Cardoso de Oliveira,
Otávio Velho, Lívia Barbosa, entre outros, faz uma homenagem
aos vinte anos da publicação de “Carnavais, malandros e heróis”,
escrito pelo antropólogo Roberto Da Matta, publicado pela
primeira vez em 1979 e com diversas edições em inglês e francês.
Simplesmente, o título chama-nos, mais uma vez, a atenção
para o fato que, diante de uma realidade tão complexa como a
brasileira, ao mesmo tempo específica e embora às vezes tão
universal, as tentativas de aproximação e de entendimento
desse país devem ser pautadas pela fuga da linearidade e da
direta e indiscutida aplicação de noções e modelos teóricos
elaborados milhares de milhas marítimas daqui. E não são
poucos os brasileiros que precisariam, já não sem tempo, dar
ouvidos a isso. Afinal,
além de outras coisas, a contradição e o paradoxo parecem
mesmo constituir alguns dos nossos mais característicos traços.
Não é à toa que, articulando-se com as especificidades do
nosso cenário, o barroco aqui não foi um estilo artístico
passageiro, mas representou um sulco profundo, autêntico e genuíno
na vida brasileira. Tal afirmação mereceria maiores
explicações e aprofundamento que exigiriam maior espaço,
tempo e esforço. No entanto, sem querer abusar da paciência do
meu leitor, vale lembrar: quem hoje caminha por nossas ruas e
praças, freqüenta nossas casas, come de nossa comida, dança
nossos ritmos, observa ou assiste aos nossos ritos ou
simplesmente participa, sentado numa varanda, de uma preguiçosa
conversa ao entardecer precisa saber que o barroco aqui é a
substância básica de toda uma nova síntese cultural.
Segundo
o historiador Nicolau Sevcenko, uma profunda dimensão barroca
assinala toda a história brasileira, com suas vibrações e
ressonâncias atravessando as mais diferentes manifestações da
cultura brasileira: a convivência das disparidades, o impulso
da contradição, a cupidez do poder, a ilusão de grandeza, os
anseios messiânicos, o sonho da glória, a atração das
vertigens, a mágica das palavras, o pendor para o exuberante e
o monumental, o gosto da tragédia, o horror da miséria e a
compulsão à esperança... Afinal,
somos “o país do futuro”, sempre. Claro que pensar apenas
no nosso barroquismo latente não é suficiente
para entender esta sociedade. Mas
ajuda. Nada mais contraditório ou paradoxal que um país com
nome de árvore e que acaba com suas florestas. Nosso modelo de
desenvolvimento (não apenas o nosso, é claro) conduz ao
empobrecimento e à miséria
- modelo este que, articulado à nossa inserção periférica
e subalterna, leva-nos a figurar entre os maiores exportadores
de capital do mundo. Detentor de um enorme parque industrial e,
quase sempre, maior exportador agrícola, o país possui um dos
maiores contingentes de pessoas com fome. Dominamos tecnologias
de lançamentos de foguetes aeroespaciais e somos conhecedores
de sofisticadíssimas técnicas de cirurgia plástica, e milhões
de brasileiros gozam do privilégio de lidar com doenças
medievais. Dono do maior volume de água potável e potencial
hidrelétrico, o brasileiro enfrenta sede e crise de
fornecimento de energia elétrica.
As contradições não surgiram agora, e nada parece
indicar que saberemos viver sem elas. Aqui, no século XVII, o
encontro da maior reserva jamais vista de ouro e diamantes levou
à opulência do barroco de Minas Gerais e à fome e ao
agravamento das condições sociais de existência. Uma vez
independente, o país não perdeu seu estatuto colonial, a cada
vez reatualizado. Adotou o regime monárquico e pôs uma coroa
sobre uma cabeça portuguesa. Manteve até à exaustão a mais
longeva e poderosa máquina escravista do continente convivendo
lado a lado com os ideais liberais. Depois,
derrubou-se a monarquia em face aos ressentimentos gerados pela
abolição da escravidão e instituiu-se uma república oligárquica.
Em seguida a uma série de golpes e uma sucessão de regimes,
ora de inspiração fascista, ora populista, ora sob o domínio
das casernas, o país vem ultimamente tropeçando na consolidação
de um regime democrático no interior do qual mais de cem milhões
de eleitores não gozam de plena cidadania (como sempre
enfatizava o geógrafo Milton Santos, o “cidadão” não se
encerra simplesmente na figura do “eleitor” ou na do
“consumidor” - estes últimos podem existir sem que exista o
primeiro). O rol de nossas contradições não tem fim. Últimos
no continente a abolir o regime escravista, fomos os primeiros
no mundo a nos declarar uma “democracia racial”, instituindo
um dos racismos mais difíceis de se combater porque
perfidamente camuflado. Um país que se gaba pelo calor humano
de sua gente, “cordial e pacífica”, vigiada pelo corpo
policial que mantém índices que garantem o primeiro lugar no pódio
entre os mais violentos do planeta. O dados falam por si mesmos:
de 1996 para cá, o número de vítimas fatais das ações da
Polícia Militar (PM) em São Paulo só cresceu. Foram
368 naquele ano, contra 749 em 2000. Algum espírito nebuloso
poderia dizer: “Ah, mas já é uma melhora, pois em 1992 a PM
paulista matou 1264 nos primeiros dez meses do ano”. Aí basta
lembrar que em 1981, durante o regime militar, a cifra dos
mortos pela PM, já considerada à época muito alta, era de 129
mortes. Bons tempos aqueles. A violência, sobretudo a criminalidade
violenta, tem sido um constante tema quando se fala da realidade
brasileira. Haja barroquismo! Produto e produtora de inúmeros
outros “problemas nacionais”, a violência costuma despertar
lágrimas, indignação, ódio, rancor e altas taxas de audiência.
Em não poucos programas de TV vale tudo contra ela: até mesmo
a pior e descarada afronta aos direitos elementares da pessoa.
Mas somos solidários. Solidários
com discernimento. Sabemos diferenciar quem merece e quem não,
e os programas televisivos têm nos ajudado nessa tarefa: a Rede
Globo com seu “Criança Esperança” tem conseguido, de ano
em ano, angariar junto aos seus telespectadores milhões de dólares
para salvar as “crianças” brasileiras. Comovente. Enquanto
isso, esses mesmos telespectadores têm aplaudido o glorioso
empenho da nossa polícia em usar da necessária energia
(“energia” e não “violência”, que fique bem claro!)
para eliminar do território aqueles sujeitos com menos de 18
anos que aproveitam de sua pouca idade para molestar ou assaltar
a classe média nos ônibus e nos semáforos. Estes
últimos nós os definimos “menores”. Será necessário
muito pudor para reconhecer no uso diferenciador dos termos
“criança” e “menor” uma distinção ideológica que
obscurece uma ignominiosa relação de desigualdade e violência
social? Indivíduos
de mesma faixa etária podem ser ou deixar de ser “crianças”
e tornarem-se “menores” segundo diferentes contextos. Não
raro, para “criança” se reserva, além de outras coisas, a
solidariedade, a atenção, a afetividade e um cuidado todo
especial por parte do mercado (brinquedos, produtos alimentares,
parques temáticos de diversão etc), enquanto para o
“menor” ficam preferencialmente predispostos os aparatos de
repressão, as páginas policiais e, no melhor dos casos, certas
organizações voltadas a determinadas ações de “amparo ao
menor carente”.
Vigora
no país uma autêntica divisão social do medo. Diferentes setores sociais experimentam distintas sensações de medo. Cada
um defende-se como pode, e a indústria da segurança é uma das
poucas que não sabe o que é crise. Segundo estimativas do
Banco Interamericano de Desenvolvimento (BID), há no Brasil
cerca de 1,5 milhão de pessoas (quase cinco vezes o efetivo das
Forças Armadas) trabalhando como agentes de segurança privada
- e apenas um terço deles em empresas autorizadas. Parcela
significativa desses cerca de um milhão de irregulares é
composta por policiais que trabalham nos seus horários de folga
- fazendo o que se chama de “bico”, o que é proibido pelo
Regulamento Disciplinar da Polícia Militar, mas quase ninguém
é punido por isso. Além disso, as empresas de segurança
privada costumam contratar parte expressiva dos policiais
afastados de suas corporações por terem sido considerados
culpados, entre outras coisas, de abuso de autoridade, de
consumo de drogas e de envolvimento com atividades criminais.
Importante lembrar, ainda, que nenhum desses cálculos diz
respeito aos agentes de segurança que atuam isoladamente, sem vínculos
com qualquer empresa, autorizada ou não. Enganava-se quem
pensava que os “capangas” e os “jagunços”, figuras
importantes na nossa literatura, fossem coisa de um tempo que
deixamos para trás. Eles, na sua nova roupagem, recebem em
alguns lugares o nome de “controllers”. Muito chique.
Todo esse empenho com segurança tem desdobramentos econômicos
não indiferentes. Apesar da sistemática diminuição dos
gastos públicos na área de segurança, a explosão dos gastos
privados fez com que, no ano passado, a despesa total no setor
correspondesse a 10% do PIB brasileiro. Em 1995, tinha sido de
6,5%. Não por acaso, então, o Brasil, em matéria de emprego
difuso de sofisticadíssimos sistemas de segurança, só fica
atrás de Estados Unidos e Colômbia. Não mais nos contentamos
apenas com ferozes e bem treinados cães de guarda e com muros
cada vez mais altos e eletrificados. O nosso barroquismo pede
mais. De furtos e seqüestros defendemo-nos também com avançados
sistemas de rastreamento de veículos por satélites, muitos se
locomovem para o trabalho usando helicópteros, e chips são
colocados sob a pele branca, mas bem bronzeada, de muita gente
elegante. Na cidade
de São Paulo, já há mais de 25 mil residências dotadas de
modernos circuitos internos de TV. No país, contam-se mais de
3,3 mil carros blindados, e a classe média já começa a
comprar os seus. Não se contabilizam aí os gastos com psicólogos
que atuam contra a onda de insegurança que envolve sobretudo
crianças e adolescentes, sempre mais estressados e ansiosos
devido à violência urbana. Tal ânsia faz com que, nas cidades,
gigantescos “shopping centers” e luxuosos condomínios
fechados, verdadeiros enclaves fortificados, brotem por todas as
partes como cogumelos após a chuva. Cogumelos carnívoros posto
que privatizam espaços antes públicos, com graves impactos
sociais, urbanísticos e ecológicos. Enquanto isso, quem
vive sob total insegurança são os moradores das periferias e
favelas. Sem contar as inúmeras e corriqueiras dificuldades
enfrentadas por qualquer população que viva em uma ordem sócio-econômica
perversa, tais moradores vivem sob ameaça constante por parte,
de um lado, dos líderes do narcotráfico e, por outro, daqueles
policiais que vêem na observância da lei e no respeito aos
direitos humanos um entrave na luta contra o crime. Isso
sem falar na atuação de policiais envolvidos diretamente com o
tráfico de drogas ou com outras inúmeras atividades ilegais. Só
na cidade do Rio de Janeiro, são quase 700 mil pessoas
sobrevivendo nos morros, sem que lhes sejam garantidas as
liberdades mais elementares, como o direito de ir e vir, de
livre organização e de expressão. Sem falar, é claro,
do direito a uma moradia digna, do qual a maioria dos
brasileiros está totalmente excluída. Ao mesmo tempo, a
imprensa parece só notar o desconforto dos setores médios e
altos. Não é raro encontrarmos frases como a seguinte: “Na
noite de sábado, os moradores de Copacabana e Ipanema que vivem
próximo à favela Pavão-Pavãozinho tiveram seu sono
incomodado pelos tiroteios entre os traficantes que disputam o
controle do morro”. Seria sensato perguntar-se como teriam
dormido os moradores daquela favela? Fica sempre mais difícil não
dar razão ao jornalista Jânio de Freitas segundo o qual a
imprensa brasileira representa um dos maiores obstáculos à
consolidação democrática do país. Nada mal. “Os de
cima”, a classe dirigente, tem medo de perder o poder e seus
privilégios. Os setores dominantes temem por suas riquezas e
receiam que suas vidas sejam pedidas em troca dessas mesmas
riquezas. Os setores médios temem a corrupção, a bala perdida,
os assaltos, os acidentes de trânsito, o desemprego e, claro, o
declassamento, a proletarização e o mau humor dos mercados
financeiros que lhe levam embora seus sonhos de fácil ascensão.
“Os de baixo” temem as catástrofes naturais que varrem seus
bairros desprovidos de infra-estrutura, o “desemprego tecnológico”,
a morte civil, a queda na marginalidade ou na exclusão, na miséria
e a arbitrariedade dos poderes formais ou informais, tanto nas
cidades quanto no campo. Mas o inventário dos temores é ainda
mais complexo. Sem pretender citar todos, temos também aqueles
medos transversais, que não reconhecem barreiras de classe,
embora tenham que lidar com elas. Tais temores podem afetar,
ainda que com diferentes intensidades, os mais diversos setores
sociais segundo a faixa etária, a cor da pele, o estilo de vida,
o gênero, a orientação sexual, o local onde se vive etc.
Existem inúmeros espíritos aterrorizados pela ameaça da perda
da beleza e juventude, pelo enfarte ou pelo câncer, pela AIDS,
pelo fracasso sexual ou a pela irrealização amorosa.
A estes últimos
medrosos a sociedade, ou seria melhor dizer o mercado, oferece
todo uma gama de produtos, serviços e especialistas: academias
de ginástica, literatura de “auto-ajuda”, peritos em
felicidade sexual, amorosa e química, e assim por diante. Pena
que toda essa parafernália de salvação estritamente pessoal,
como nota o psicanalista Jurandir Freire Costa, não sirva para
proporcionar a mínima serenidade necessária ao sentimento de
satisfação individual. Segundo Costa, os atuais ideais e
estilos de vida e consumo paralisam os indivíduos num estado de
ansiedade permanente, em grande parte responsável pela
incapacidade que esses « famintos de felicidade » têm
de olhar outra coisa que não sejam seus próprios umbigos. Procurando
sempre inviabilizar discussões acerca dos valores e do quadro
social e institucional do país, as elites recusam-se a aceitar
qualquer questionamento de seus privilégios e de seu estilo de
vida. Não surpreendente, então, a permanência do trinômio
“droga, sexo e credit card” como principal mandamento do
catecismo da nata da sociedade brasileira.
Apesar dos pesares, as vidas seguem seus rumos possíveis,
infelizmente nem “sempre reinventadas” como aconselhava Cecília
Meireles, mas pelo menos projetadas no imprevisto das contingências
e presas ao emaranhado da verdade profunda de nossos sonhos e
fantasias, individuais e coletivas. E pois não se falava de
barroco?
O
autor è professore deSociologia e
outras materias no Centro Universitario de Brasilia (UniCEUB) e
no Instituto de Educaçao Superior de Brasilia (IESB)
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